C’eravamo tanto amati: quando a Reggio mangiare fuori era un’altra storia

Dal numero zero del mitico panino con la mortadella, alla doppietta cinema-pizzeria, quando il mondo del "mangiare fuori" a Reggio era tutta un'altra storia

Foto libro Caffè di Reggio - Agazio Trombetta

A Reggio ci sono dozzine di locali (che bellezza, direi), c’è una vasta scelta di menù, di location, di attrattiva; un’abbondanza che noi boomers di periferia ci sognavamo di notte e cadevamo dal letto. Si trova di tutto, specialità greche e giapponesi, cucina innovativa e tradizionale, pizze gourmet e brocculi ‘ffucati, e tutto va a vantaggio dell’allegria che, quando si mangia e si beve bene, aumenta a dismisura, soprattutto in popoli che hanno nel patrimonio genetico secoli di fame e di privazioni (sto parlando di noi calabresi).

Per i sessantenni contemporanei il mondo del “mangiare fuori” era tutta un’altra storia.

Il numero zero del cibo fuori casa è stato il panino. Non con formaggio “Ceddar”, hamburger di maialino nero dell’Alsazia, radicchio trevigiano, pistacchio di Bronte (a proposito, ma quanto pistacchio fanno a Bronte? Miliardi di tonnellate, immagino), cetriolini dei Carpazi e crema di totano del Mar Nero. Niente affatto, il Big Bang del panino, l’origine della specie, il mito ancestrale, è il panino caldo (appena sfornato) con la mortadella. Realizzarlo era semplice nel mio rione dove gli esercizi commerciali erano concentrati tutti in una via: bastava attendere una “sfornata”, ad esempio alle dieci e trenta di una assolata mattina di Giugno, comprare due “michette” – la morte sua, le michette con la mortadella – e portarle, ancora roventi, dalla signora della bottega che tagliava due sottili fette di mortadella, talmente sottili che a volte erano trasparenti, con l’affettatrice rossa e cigolante; poi tagliava i panini con un coltello simile ad una katana (la signora non si bruciava le dita, che dovevano essere d’amianto) e ci infilava dentro, ripiegandole, le due fettine di suino pistacchioso, mentre noi schiumavamo saliva tipo cani. Avvolgeva i panini in un foglio di giornale, e ce li passava. Il grasso della mortadella si scioglieva, e fu allora che compresi il valore della parola “beat” che deriva, appunto, da beatitudine. Con la gassosa compresa si spendevano circa trecento lire.

I più golosi aggiungevano la provola, un abbinamento che manda in estasi; ma, con la crescita dell’età, i panini cominciarono a diventare più fantasiosi: da Don Pepè era super quello con pancetta e melanzane sott’olio, da Paolina capicollo e pomodori secchi, da Donna Maria salame e pecorino fresco. I fogli di giornale scomparvero, sostituiti da una carta ruvida marrone, la stessa sulla quale le bottegaie facevano i conti.

Cominciò l’epoca delle pizzette. Non le pizze enormi che si possono gustare oggi: erano proprio pizze di dimensioni ridotte, buone per la merenda pomeridiana, anche se te ne mangiavi due (un classico) l’appetito per la cena non si guastava. Nel rione ferrovieri il primo fu il Bar Mokambo, la gente faceva la fila e quel gusto entrò nella leggenda. Grandiose erano quelle del Tennis di Via Galvani, croccanti sotto e morbide sopra, mozzarella filante, capperi e origano: la semplificazione del gusto assoluto. C’erano inoltre il forno Curmaci e il Bar Stadio, ed ogni pizzetta aveva le proprie caratteristiche uniche.

Le pizzerie a metà dei Settanta si diffusero rapidamente.

Tra quelle da asporto (questo racconto lo devo alla mia memoria, sicuramente parziale ed incompleta, quindi mi scuso con tutti quelli, saranno tantissimi, che non cito) ricordo l’Alhambra, in quella via che ancora oggi chiamo “La salita dell’industriale” – da decenni percorribile solo in discesa – dove si creava una fila che sembrava un concerto dei Beatles. Era una pizza “quadrata”, si ordinava a “teglie” (mezza teglia, una, due, sei teglie), e c’era disponibilità di tutti i gusti dell’epoca (Margherita, Napoli, Quattro stagioni, Prosciutto e funghi – stop). Mi risulta indimenticabile l’abbinamento pizza dell’Alhambra – mondiali di calcio del ’78: ad ogni partita dell’Italia si appaiava, in compagnia di tanti amici dei miei genitori, la scorpacciata. Anche quando vincemmo con l’Argentina, partita cominciata dopo la mezzanotte, mi ricordo tra primo e secondo tempo l’allegria del profumo di quella pizza beata. Ma erano tempi nei quali le persone avevano piacere a stare insieme nella semplicità delle cose, e non c’era la rincorsa all’effetto speciale e all’esperienza unica.

Andare in pizzeria divenne un rito, in origine collettivo, ad esempio con i compagni di scuola, e poi si trasformò in una abitudine; l’abbinata cinema-pizzeria del sabato costituiva uno dei momenti topici dell’esistenza, ma non è che si poteva fare tutte le settimane, sia chiaro: una o massimo due volte al mese. Anche se rispetto ad oggi i prezzi erano ridicoli, anche gli stipendi erano ridicoli, e le famiglie avevano tre, quattro e anche cinque figli ciascuna.

Le pizzerie più famose erano Conti, La Posada, La Pignata, (me ne sfuggono altre, ma c’erano), il mitico Giardini, al centro di Reggio, dove spesso si festeggiavano compleanni e ricorrenze; ma anche dove si portavano le ragazze la prima volta che ci uscivi; anche quando le si regalava la fedina di oro bianco di fidanzamento, mentre mangiavi la pizza le toccavi la mano, lei sorrideva maliziosa e tu ‘ngruppavi (favolosi alcuni termini dialettali, intraducibili) ti passava la fame e non vedevi l’ora di andartene, magari al Pilone o al Fortino.

Non erano tantissime le pizzerie in cui sedersi a tavolo; c’erano Beniamino, L’Onda2, Salvo D’acquisto, la Bussola, e soprattutto Mandalari in via Reggio Campi, che inventò la “pizza al fondo” una delle meraviglie dell’umanità: quando usciva dal forno nella piccola sala suonava un campanello: “din don”, che significava “la pizza è pronta”. Ricordo un amico che spiegò alla ragazza di fronte che quel suono significava proprio questo, “Din don, la pizza è pronta” e per tutta la serata, ammiccando, canticchiò Din-don, come dire che anche lui era “pronto”. La stessa persona che ballò Fever Night sul parapetto del Calopinace.

Perché, nel nostro fenomenale slang, la parola “pizza” indica anche l’attributo virile, prestandosi ad innumerevoli doppisensi e giochi di parole. Mia zia Nanna, già molto anziana, la chiamava “Pitta”; io le chiedevo “Zia ti piaci a pizza?” e lei rispondeva “scustumatu e villanu”.

Per anni è andata la battuta che i Carabinieri avevano chiuso questa o quella pizzeria. Il fesso di turno rispondeva “perché?” e la risposta era “pirchì ci bruciau a pizza o sindacu”. Battute che Alvaro Vitali spostati.

Di mitico a Reggio c’erano i calzoni di Parisi, sul Corso. Nonostante innumerevoli casi di imitazione, calzoni buoni come quelli non ne ho più assaggiati: semplici, mozzarella colante e pomodoro, erano un paradiso artificiale e creavano dipendenza. Infine, precursore dei paninari, c’era Don Carmelo, in una traversa del corso, che preparava panini wurstel e patate meglio delle salsiccerie di Monaco. Indimenticabile lui, sorridente con i baffoni bianchi, e quei succulenti panini strapieni sui quali versava boccette di Tabasco che poi l’incendio in bocca si doveva spegnere con un ettolitro di birra. E poi Socrate, di fronte allo scientifico, con quei panini patate fritti, funghetti, maionese e magari nduja consumati all’uscita da scuola, il Vinci, la mia scuola.

Poi si tornava a casa e si completava, con pasta e pomodoro, carne, insalata e se avevi ancora fame ti facevi due uova fritte, che non ci vuole niente, “a nonna”. Eppure eravamo quasi tutti secchi, secchi come stecchi, quattro ossa e la testa grossa, ma in palestra ci andavano solo quelli con la scoliosi e i muscoli tipo Conan il Barbaro li avevano solo i muratori e gli scaricatori di porto.

Arrivò l’epoca delle discoteche: il “triplete” era cinema-pizzeria-discoteca, quasi impossibile da realizzare; ma queste delle discoteche reggine è un’altra storia, che merita una puntata a parte.

Troppo toghi, questi ricordi. Ma non vi suona meglio troppo tochi?

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