Leopoldo Trieste, l’ultimo dei Vitelloni
La gioventù a Reggio Calabria, la carriera di drammaturgo e quella di celebrato attore “scoperto” da Fellini ne I Vitelloni
«Un portatore di saggezza orientale. L’incarnazione dell’invito a non drammatizzare. Il risolutore degli intrighi irrisolvibili. Quello che trova la porta in fondo al labirinto». È questo il ritratto che Federico Fellini fa di Leopoldo Trieste.
Traspare la simpatia per un amico fedele, l’ammirazione per «un personaggio colto e intelligentissimo, la curiosità per un Casanova calabrese tutto di testa, buffo e fantasioso in grado sommo» che nei suoi disegni Fellini ritrae con la «faccia impenetrabile da mandarino ubriaco».
Drammaturgo ed attore enigmatico
Enigmatico e mai turbato, pronto a dire a chiunque una parola incoraggiante, Leopoldo Trieste fu drammaturgo per vocazione e attore per professione, dilettandosi anche con la regia, passando dal set al teatro con naturalezza e disincanto, con la certezza che, diceva Vittorio Bonicelli, «comunque faccia, non farà una cosa qualsiasi».
L’infanzia e la gioventù nella natìa Reggio Calabria
Un eclettismo che forse gli derivò dagli anni vissuti nella terra natia, a Reggio Calabria, dove nacque il 3 maggio 1917 nello storico rione Ferrovieri, da dove come scrisse egli stesso «attraverso un corto tunnel sempre invaso da allegri rigagnoli – giungeva – su una spiaggia sterminata, deserta e sabbiosa come quelle della Papuasia» per vedere il mare viola dello Stretto.
O forse dall’influenza di Salvatore Quasimodo, allora impiegato al genio civile di Reggio che passava le serate in casa Trieste, sentendo suonare al pianoforte la sorella Vera, recitando poesie e nutrendo profonda simpatia per il ragazzo.
Perduto il padre, a dieci anni, Leopoldo troverà una guida nello zio Turi, ufficiale della marina mercantile che, convinto sostenitore della vocazione drammaturgica del nipote, gli invierà un assegno mensile per contribuire a fargli frequentare il teatro, finché una volta terminato il ginnasio spronerà tutta la famiglia a trasferirsi a Roma, dove Leopoldo potrà trovare la sua strada.
Roma, la guerra e i primi lavori
Così Trieste lascerà la sua terra e studierà all’università di Roma, laureandosi e vincendo una borsa di studio a Boston. Ma alla vigilia della partenza scoppierà la II Guerra mondiale e Leopoldo verrà richiamato alle armi. Avendo frequentato un corso di regia al Centro sperimentale passerà dalla fanteria al genio cinematografico in Sicilia e lì verrà sorpreso dallo sbarco degli anglo-americani, filmando, a scopo di propaganda, i bombardamenti, e contemporaneamente scrivendo teatro drammatico.
Nasceranno così i primi titoli che lo vedranno debuttare, nell’estate del ’45, al teatro Quirino di Roma con “La Frontiera”, cui seguiranno “Cronaca” e “N.N.”. I tre lavori avranno successo per il modo appassionato e insieme distaccato di affrontare, in un teatro dal retaggio borghese, i temi dell’attualità più scottante. Ma mentre ci si aspetta tanto dal giovane autore ormai affermato, Trieste cambierà rotta diventando sceneggiatore cinematografico e collaborando a film quali “Gioventù perduta” (1948) e “Il cielo è rosso” (1950).
L’incontro con Fellini
Poi arriverà l’incontro con Fellini e Leopoldo si ritroverà nei panni di Ivan Cavalli, il giovane sposino de “Lo sceicco bianco” (1952) e l’anno successivo in quelli del velleitario intellettuale de “I vitelloni”.
È l’esordio di una fortunata carriera di caratterista che lo vedrà nelle vesti di Carmelo Patanè in “Divorzio all’italiana” (1961) accanto a Mastroianni, nello sdentato barone Rizieri in “Sedotta e abbandonata” (1963) e, nell’ambito del lungo sodalizio artistico con Alberto Sordi, in “Un americano a Roma”, “Il medico della mutua”, “Il marchese del Grillo”.
In quegli anni Trieste si distinguerà anche come regista, con le pellicole “Città di notte” (1956) e “Il peccato degli anni verdi” (1960), tornando poi a fianco di Robert De Niro ne “Il padrino II” (1974), nel ruolo di padre Adelfio di “Nuovo Cinema Paradiso” (1988) e del muto dell’”Uomo delle stelle” di Tornatore (1995), partecipando anche a sceneggiati televisivi, tra cui “Quo Vadis” (1985) e “Le inchieste del commissario Maigret” fino all’ultima apparizione ne “Il consiglio d’Egitto” (2002).
Un artista poliedrico
Versatile nel registro comico quanto in quello drammatico, col suo “agrodolce” meridionale, Leopoldo Trieste fu capace di recite uniche, interpretando «con quei suoi fissi occhi sporgenti che bruciavano di sbigottito desiderio, miti timidezze o burocrati odiosi, la disperazione e l’orgoglio, brave persone e criminali ripugnanti, usurai, aristocratici in miseria e cafoni goffi» (Geminello 2003, Corriere della Sera).
Un’infinità di personaggi dai quali emerge un’insolita umanità, perché quello che gli premeva non era la recitazione ma l’atto di vita che ne veniva fuori.
Un libro e una via in suo onore
Il 25 gennaio 2003, Leopoldo Trieste se ne è andato, lasciandosi «scivolare sulle onde della vita», senza rimpianti, come tutta la sua esistenza.
A dieci anni dalla scomparsa, Gaetano Pizzonia gli dedicò “Il mito di Leopoldo Trieste”, edito dalla reggina Laruffa: un libro che ripercorre la vita e la carriera dell’artista dalle mille anime «col fine – ha affermato l’autore – di onorare la sua memoria, visto che le istituzioni l’hanno quasi dimenticato e di far conoscere la sua grandezza di drammaturgo oltre che di bravissimo attore ai suoi concittadini».
Nel centenario della nascita, Reggio gli ha intitolato la piazza, alla confluenza tra via Torricelli Pescatori e via Nicola Furnari, nel suo rione Ferrovieri.