La stele a Ibico, il cantore dell’amore

Definito da Cicerone il "più infiammato d'amore di tutta la Magna Grecia", fu uno dei poeti lirici reggini più importanti dell'età classica, inventore della sambuca

Una massiccia lastra di marmo con raffigurata una musa nell’atto di suonare un’antica lira, sul Lungomare Falcomatà, è destinata a celebrare il grande musico e poeta Ibico.

Ibico, il cantore dell’amore

Considerato il cantore dell’amore e della bellezza, la cui sublime lirica fu decantata persino da Cicerone che lo definì il “più ardente d’amore di tutta la magna Grecia”, la sua vita si perde nelle pagine della leggenda. 

Pare certo che sia nato a Reggio intorno alla metà del VI secolo a.C. da famiglia aristocratica, che forse governò la città sino alla presa del potere di Anassilaos. Dopo la morte di costui, ad Ibico spettava, probabilmente, il titolo di tiranno della polis reggina, ma si dice che egli lo rifiutò, preferendo dedicare la sua vita alla poesia e viaggiare, recandosi prima in Sicilia e poi a Samo, alla corte di Policrate, negli anni in cui Anacreonte era precettore del figlio dell’omonimo tiranno. 

Il rifiuto gli guadagnò l’appellativo di “ingenuo”, che passò alla storia, addirittura, come modo di dire “ingenuo come Ibico”. 

Al fianco di Omero e Saffo

La poetica di Ibico è fortemente caratterizzata dal tema dell’amore, vissuto come una forza travolgente e misteriosa, infinitamente dolce e crudele, resa spesso attraverso le metafore con un perfetto connubio tra sentimento e parole, tra interiorità e poesia.

Fu inserito dai grandi studiosi alessandrini al fianco di Omero e Saffo, e le sue opere furono raccolte in sette libri, conservati nella biblioteca d’Alessandria d’Egitto di cui oggi restano, tuttavia, pochissimi frammenti.

Inventore della sambuca

Ad Ibico, è attribuita l’invenzione della cosiddetta “sambuca”, una cetra triangolare con la quale accompagnava la recita dei suoi canti.

Il suono di questo strumento musicale è paragonabile a quello della lira, anch’esso di origine greca.

Le gru di Ibico

Il sommo poeta secondo diverse fonti morì a Corinto, ma la leggenda vuole, invece, che perì lungo l’allora esistente promontorio di Calamizzi, per mano di due ladroni che lo derubarono ed uccisero.

La sua tragica fine è narrata anche nell’Antologia Palatina e nel De garrulitate di Plutarco.

Sembra che il poeta, nel punto di spirare, invocò la testimonianza di uno stormo di gru che era di passaggio in quell’infausto momento e le pregò di vendicare la sua morte.
Gli assassini si beffarono di lui e dopo averlo ucciso, lo derubarono e si diedero alla macchia. La morte di Ibico destò grande eco tra la gente e, pur essendo diffuso il desiderio di assicurare i suoi uccisori alla giustizia, questi rimasero per lungo tempo ignoti.

Finchè un giorno, per caso, uno dei due ladroni mentre si trovava in mezzo alla gente, vedendo passare in alto, nel cielo uno stormo di gru, esclamò sghignazzando: «Guardate, i vendicatori di Ibico!».

Questo bastò a svelare la verità sul crimine commesso e i due predoni furono arrestati e puniti come meritavano per aver ucciso il cantore dell’amore. 

Quasi a voler ribadire la “verità” della leggenda c’è una specie di gru che porta il suo nome. E l’espressione “le gru di Ibico” è usata nel mondo giuridico per evidenziare una cosa certa e acclarata con prove manifeste.

La stele a Ibico sul Lungomare

“Nella topografia cittadina il fronte a mare esibiva tra le meraviglie arcaiche (VI secolo a.C.) il monumentale sepolcro del poeta Ibico” travolto dalla devastazione dei Siracusani e poi forse ricostruito nel III sec. a.C. scriveva il filologo reggino Franco Mosino in un articolo dei Quaderni Urbinati di Cultura Classica.

Di tutto ciò oggi la città non conserva più memoria e il poeta Ibico è ricordato con la stele, realizzata da Michele Guerrisi, che svetta sul Lungomare.

Sul frontespizio dell’altorilievo spicca la frase “Ibico reggino, tra i poeti eterno“.

Più in basso sono incisi alcuni dei suoi versi più intensi: “A primavera, presso l’inviolato giardino delle ninfe, fioriscono i cotogni da fluviali linfe irrigati. S’infiora anche la vite sotto i nuovi tralci ricchi di pampini. Ma in nessuna stagione a me dà tregua l’amore come il vento che giunge dalla Tracia crosciando e avvampando di saette esso irrompe da Venere con bruciante furore, e tenebroso e indomito sconvolge tutto l’essere mio dalle radici”.

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