La Balena e il senso della vita

Moby Dick di Melville innalza la balena sulle vette del racconto umano mentre noi condannati a inseguire il leviatano siamo cimici della storia

La balena misura la storia dell’uomo con i suoi guizzi da gigante, ne fornisce giudizio implacabile sulla sua crudeltà e stoltezza, terrorizza gli assassini – che la braccano per questo – e rasserena i poeti, stendendo sulle inquietudini il suo sguardo senza tempo.

Melville scrisse Moby Dick con l’animo fluttuante di chi cerca l’assoluto, disperatamente conscio di non trovarlo mai. Il cetaceo s’innalzò sulle vette del racconto umano, stroncando la velleità di farsi simile agli dèi. Condannati ad inseguire il leviatano, noi, cimici della storia, gonfiamo i muscoli di fronte agli effimeri trionfi della sua caccia. Uccidere le balene è un delitto, uno tra i tanti che giornalmente compiamo contro il mondo, ma assume connotati spirituali definendoci per ciò che siamo: i pagliacci del cosmo.

Ho visto soltanto tre balene nella mia vita: la prima è stata nel 1973, ero in quarta elementare al De Amicis e fummo portati – una scolaresca festante – in un tendone alla Villa Comunale che ospitava una grande balena imbalsamata. Una specie di circo itinerante per sfoggiare un cadavere, un tipico spettacolo nauseabondo come solo noi umani sappiamo allestire.

La balena, chiamata Goliath, era lunga 22 metri e pesava 68 tonnellate. La sua pelle, durissima (l’ho toccata!) era verdastra, ma noi bambini eravamo talmente minuscoli da non coglierne l’insieme. Ricordo più che altro lo smarrimento e la paura, anche se la maestra si era affannata – c’era anche il ricordo di quel Pinocchio di Comencini a terrorizzarci – a spiegarci che le balene non mangiano persone e che non hanno denti ma fanoni, che sono come spazzole. La balena era stata uccisa nel 1954 in Norvegia, e il suo corpo imbalsamato venne portato in tutto il mondo fino agli anni ’80. Un pubblico ludibrio per il pacifico animale, una miseria morale e intellettuale per tutti noi.

La seconda balena che vidi era un capodoglio. Vivo, imponente, poco distante: uno dei ricordi più potenti della mia vita. Era il 1981.

C’era stata una burrasca di fine agosto e mi trovavo sulla Jonica, a Marina di San Lorenzo. Passata la pioggia, il mare era in tempesta e il cielo grigio di nuvoloni. Le onde erano molto alte, la corrente impetuosa si dirigeva verso sud-est, quando da lontano sbucò questo gigante: nuotava controcorrente, dirigendosi verso lo Stretto, fendeva i marosi come una nave da guerra, li spaccava con quella sua fronte porosa impareggiabilmente descritta da Melville.

Seguimmo da riva il capodoglio controcorrente, che si trovava a qualche centinaio di metri di distanza, per più di un chilometro fino quasi ad Arcina. Ero ipnotizzato, affascinato, ammaliato.

Era la storia del pianeta che mi passava davanti.

Purtroppo, allora non c’era possibilità d’immortalarlo in foto; così adesso è stampato nei miei ricordi, con il cielo da tregenda, il mare color del vino, e lui, leviatano senza paura, che solcava il dramma con la leggerezza degli spiriti liberi.

La terza balena che vidi è l’emblema della tristezza e della morte: una specie di colossale barbapapà biancastro arenato sulla spiaggia di San Lucido, vicino Paola, un paio di anni fa. Gabbiani festosi roteavano sulla carcassa, increduli come gli scolaretti del De Amicis, e attorno una folla di curiosi come ai funerali di gente importante.

La balena morta simboleggiava la fine della corsa. Chissà quali oceani aveva solcato, quali profondità aveva raggiunto, quali battaglie sostenuto, quali amori provato. Così imponente in acqua, così buffa in terra, era L’Albatro di Baudelaire, goffo, inerme, e pretesto per risate da gaglioffi.

Moby Dick è il mio libro preferito in assoluto. Andrebbe riletto costantemente. Io lo faccio ogni tre anni circa, ogni volta ci trovo senso e significato nuovi.

Quello che non muta è il mio amore per questi grandi esseri, misteriosi (le balene cantano!), liberi, amorevoli con i piccoli, espressione di una natura che di malvagio non ha più nulla ormai, tranne l’essere umano, che continua a cacciarli e tormentarli.

Ma Achab “andò a fondo con la nave” e “il grande sudario del mare tornò a stendersi come si stendeva cinquemila anni fa”.

Melville docet.

Evviva le balene!

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