Italo Falcomatà: il Sindaco della Primavera
Falcomatà fu sindaco, scrittore, insegnante: ebbe tante passioni nella sua vita unite dalla stessa fede di riscatto per la sua terra. Ne ricordiamo la figura a 23 anni dalla scomparsa
“Quello che facciamo è soltanto una goccia nell’oceano. Ma se non ci fosse quella goccia all’oceano mancherebbe”. Era una delle convinzioni di madre Teresa di Calcutta. Italo Falcomatà aveva fatto di questa convinzione, il motore di tutta la sua esistenza. Quell’uomo “minuto e tenace – che – se ci fosse la santità civile, sarebbe oggi un santo della nostra Repubblica” come scrive Giuliano Amato, nella prefazione a “L’uomo del disordine” di Costanza Pera, aveva la grande convinzione che la sua terra “bella, ricca e incompresa” potesse risorgere, che gli uomini e le donne di Reggio avessero la possibilità di cambiare ciò che sembrava immutabile.
Questo fu il punto fermo anche della sua carriera di letterato e di professore, perché la lezione umana di Falcomatà non si esaurisce nella pur grande stagione politica ma si allarga verso un orizzonte caratterizzato dall’impegno di saggista e di insegnante.
Lo studioso prestato alla politica
Il “sindaco di tutti” è stato essenzialmente uno studioso prestato all’arte del governo, uno storico attento e un appassionato meridionalista che cercava a fondo tra le pieghe degli eventi, con la consueta tenacia e con l’intento di ridare valore a momenti chiave della storia della sua città. Ha indirizzato le sue ricerche sul ruolo della borghesia nel periodo della grande depressione del mezzogiorno, al fine di evidenziare le ragioni ed individuare le responsabilità del sottosviluppo della sua terra. Ciò lo ha portato a pubblicare diverse opere, tra le quali spiccano: “Giuseppe De Nava, un conservatore riformista meridionale”, che gli è valso il Premio Sila nel 1978; alcuni saggi su Giuseppe Genoese Zerbi e “I problemi di Reggio nella poesia dialettale, da Nicola Giunta in poi”.
Sulla stessa linea si inquadra “Democrazia Repubblicana in Calabria: Gaetano Sardiello (1890-1985)” dedicato “a Rosetta cor gentil”, attraverso il quale Falcomatà ricostruisce i tratti della borghesia democratica calabrese, evidenziando l’esistenza di minoranze combattive delle quali Gaetano Sardiello era degno rappresentante e rivivendo, attraverso le sue parole, le battaglie combattute nella Giovane Calabria, nella Lega Democratica, per le questioni cittadine del museo, del capoluogo e del Cipresseto, a fianco di illuminati settentrionali come Zanotti Bianco “acceso del suo amore inesausto per la Calabria bella e sventurata”.
Ma la prima vera opera di Falcomatà, per certi versi obbligata perché tesi alla sua laurea in lettere classiche discussa all’università di Messina nel 1967, con relatore Alberto Monticone e correlatore Gaetano Cingari, fu “Il Corriere di Calabria e l’opinione pubblica reggina nella grande guerra (1914-1918)”. Rimasto inedito per quasi quarant’anni e ripubblicato da Città del Sole nel 2004, grazie all’impegno della Fondazione che porta il suo nome, il primo atto del Falcomatà scrittore è un’analisi lucida di uno dei periodi di storia più travagliati della Calabria, che va dall’età giolittiana all’avvento del fascismo, ripercorso attraverso le pagine del quotidiano fondato e diretto da Orazio Cipriani senior.
Anche qui l’intento del giovanissimo Falcomatà è quello di capovolgere i punti di vista tradizionali, riconoscendo al giornale di Cipriani il ruolo di custode dell’opinione pubblica ma ribellandosi al giudizio ingiusto di “insensibilità” attribuito all’atteggiamento di ostilità alla guerra della popolazione reggina. Falcomatà analizzò le condizioni di miseria della sua gente già duramente provata dal terremoto del 1908, che accettò la guerra come un “male divino” dando prova, nonostante tutto della sua generosità, osservando, con amarezza, che “l’impegno onesto e coraggioso di un umile popolo” nei futuri tempi normali fu dimenticato da tutti. Così, il popolo calabrese che “aveva sempre sofferto e atteso” tornò allo “squallore desolante in cui era costretto a vivere” e la sofferenza e l’attesa “erano per esso diventati un’abitudine come tante altre, un costume di vita”.
L’insegnamento come missione
Falcomatà, invece, aveva capito che era ora di smettere di attendere, che esisteva una Calabria che voleva ancora reagire e le migliori risorse per accelerare questo cambiamento erano i suoi studenti. L’insegnamento era per Italo Falcomatà una vera missione. Era stato docente di storia contemporanea presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Messina e di storia dell’Italia contemporanea all’Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio, ma il suo impegno più profondo fu quello di ordinario di italiano e storia presso l’Istituto tecnico industriale “Panella” della sua città, dove Falcomatà ha insegnato per oltre venti anni.
I suoi “alunni meccanici” avevano bisogno di una guida sicura, di qualcuno che mostrasse loro la strada per emergere dall’equilibrio immutabile cui erano sottoposti. “Ci teneva molto allo studio, conosceva a perfezione la storia della città, rendendoci tutto più semplice e comprensibile. A scuola, poi, voleva che indossassimo la cravatta perché diceva che noi dovevamo distinguerci” ricordano i suoi alunni del corso di meccanica degli anni 90/91.
Falcomatà aveva cercato di insegnare loro ad avere fede nelle proprie capacità. Era stato una guida e un amico, come testimoniano le centinaia di messaggi di solidarietà e di dolore alla sua scomparsa e i tanti ex alunni venuti a rendergli l’ultimo saluto, quel giorno di dicembre del 2001. Anche loro, come tutti i reggini, avevano bisogno di credere, di ritrovare l’orgoglio perduto. E Falcomatà aveva mostrato a tutti che era possibile.
L’amore incontrastato tra la città e il suo sindaco
“Io non mi piegherò, ma tu, Dio mio, dammi il coraggio”. Era il 13 luglio del 2001 quando Italo Falcomatà, con queste parole di speranza che racchiudevano la scelta di combattere contro il male che l’aveva colpito, comunicò ai Reggini la notizia di essere affetto da leucemia. Una decisione difficile quella di condividere pubblicamente la malattia: in uno dei momenti più critici della vita di un uomo, in cui gli sforzi vanno indirizzati solo verso se stessi, Falcomatà scelse di rassicurare gli altri, di fornire un “pensiero d’amore” alla sua città, alla sua gente, comunicando, ancora una volta, in modo diretto, che loro rimanevano sempre in cima ai suoi pensieri, che non avrebbe mai mollato. Durante la malattia non smise mai di preoccuparsi dei problemi di Reggio, approfittando di ogni momento di tregua per andare a controllare personalmente i cantieri, anche solo per stare in mezzo alla sua gente. E tutti, senza distinzione, si mobilitarono spontaneamente per rincuorarlo e sostenerlo. Centinaia di biglietti, di messaggi di solidarietà, di disegnini dei bambini giungevano ogni giorno al reparto di ematologia degli Ospedali Riuniti. Ma dopo un’estenuante lotta, una lunga serie di ricoveri e il trapianto, la malattia porterà Italo Falcomatà alla prematura scomparsa: l’11 dicembre del 2001.
Due giorni dopo, la basilica del Duomo non riusciva a contenere la fiumana di gente accorsa per dare l’ultimo saluto al “suo” sindaco, portato in spalla dagli uomini della scorta. Alleati e avversari, istituzioni, consigli di quartiere, associazioni, religiosi, amici e cittadini, grandi e piccini, erano tutti presenti con l’animo ferito e il peso del dolore per rendere omaggio all’uomo che aveva fatto rialzare la testa alla città, che aveva restituito ai reggini il loro orgoglio. “Mentre Falcomatà compie il suo ultimo viaggio, la città cammina” dirà l’arcivescovo Mondello nell’omelia. Una commozione fortissima e densa che è continuata con le migliaia di testimonianze, di telegrammi, di necrologi, di poesie, pervenute nei giorni dopo la sua morte. Messaggi sinceri ed accorati intrisi di vero rammarico, appassionati, emozionanti e struggenti. Nei giorni dopo la sua morte, sui muri della città i suoi “angeli custodi” fecero affiggere un manifesto che esordiva così: “La società misura la grandezza di un uomo dal numero di persone che lo servono. Il metro del cielo misura un uomo dal numero di persone che sono state servite da lui”.
Sono passati 23 anni ma per chi l’ha conosciuto e potuto ammirare nella sua integrità e umanità (ndr come la sottoscritta), nulla può scalfire queste parole.