Francesco Cilea: genio e gentiluomo

Il 20 novembre di 74 anni fa ci lasciava uno dei più grandi geni musicali cui la nostra terra diede i natali che lasciò in eredità al mondo creature come l’Arlesiana, Adriana e Gloria

Animo nobile e discreto, dall’onestà cristallina e dall’indole sensibile e modesta. Questo era il mondo interiore di Francesco Cilea, genio musicale e gentiluomo.

Palmi, “ridente cittadina in provincia di Reggio Calabria” viveva un gran fermento letterario e musicale quando venne al mondo il 23 luglio 1866, dall’avvocato Giuseppe e dalla nobildonna Felicia Grillo, in una palazzina sul corso principale distrutta insieme alla città dal tremendo terremoto del 1908 (‘Cilea: documenti e immagini’, Grande, Laruffa 2001).

La nascita del genio tra le avversità

Primogenito di cinque figli si ritrovò a crescere in casa dei nonni materni in via San Filippo (oggi via Cilea) dove venne a contatto con la musica seguendo le lezioni di pianoforte impartite alla giovane zia Eleonora, dal maestro Rosario Jonata, direttore della banda musicale cittadina, la stessa che a soli quattro anni gli diede ‘la più profonda e avvincente commozione’ eseguendo le note dolenti della Norma di Bellini che gli rimasero impresse nell’animo per tutta la vita, come scriverà egli stesso nei ‘Ricordi’.

Ancora in tenerissima età, a causa della sciagura che colpì la madre ‘colta da irreparabile alienazione mentale’ il piccolo ‘Ciccillo’ fu mandato insieme al fratello Michele al convitto di Napoli. Qui manifestò subito l’inclinazione per la musica componendo diversi pezzi che dedicherà alla zia Eleonora, ‘musicale compagna’ dell’infanzia, e destando l’interesse del direttore dell’istituto che gli consiglierà di intraprendere gli studi musicali, nonostante le resistenze del padre che intravedeva nel suo futuro la carriera forense.

Sarà grazie all’interessamento di Jonata e del conterraneo Francesco Florimo che Cilea, sotto la sorveglianza del ‘cerbero’ (il professore di latino e greco che il padre gli mise alle calcagna) verrà ammesso al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli.

“Amavo Bach, mi appassionava Beethoven, mi commoveva Chopin” scriverà e nel volgere di qualche anno darà prova tangibile del suo talento meritando il primo posto gratuito nel Collegio e la nomina prestigiosa a ‘primo alunno maestrino’.

Lo scorrere sereno della sua giovinezza fu segnato presto dai dolori: la morte del padre nel 1884 preceduta da quella di due sorelle e dalla prematura scomparsa della madre peseranno notevolmente sull’animo del musicista attenuate dall’opera lodevole del tutore, l’avvocato Pietro Carbone che si prodigò per amministrare i beni degli orfani Cilea e garantire loro un tranquillo avvenire.

La Gina e la Tilda

Rientrato a Napoli, ad epidemia di colera debellata, si aggiunse per Francesco un altro ‘lutto di famiglia’: la scomparsa di Francesco Florimo il 18 dicembre 1888.

In quanto primo alunno toccherà a lui, secondo tradizione, dargli l’estremo saluto, ricevendo l’incarico di musicare il libretto di un’opera in tre atti di Enrico Golisciani.

Nasce la ‘Gina’ alla quale il giovane Cilea si dedicherà consapevole dell’onere e dell’onore ricevuto.

L’opera, eseguita sul piccolo palcoscenico del collegio la sera del 9 febbraio 1889, fu giudicata con crescente favore dalla critica e dal pubblico e venne ripetuta per più sere consecutive.

Una volta conseguito il diploma di magistero Cilea dovette lasciare S. Pietro a Majella e ‘lanciato in un mare in tempesta’ si dedicò all’insegnamento del pianoforte, componendo suite per violoncello e piano ed assaporando ‘il gusto dei primi modesti guadagni’.

“La Gina, intanto, da buona figliola, lavorava per me in segreto’ annoterà nei Ricordi, ed, infatti, gli aprì la strada per la composizione de ‘La Tilda’ su libretto di Zanardini offertagli dall’editore Sonzogno messo a parte dei suoi successi dal maestro Paolo Serrao.

Il dramma, dalle situazioni volgari e fosche, avulse dal suo stile, non piacque a Cilea, il quale accettò per paura di perdere una rara opportunità professionale, ponendo, comunque, gran fervore nel lavoro di composizione e rifugiandosi a Bagnara Calabra in casa dell’affezionato cugino Arena.

La Tilda fu rappresentata la sera del 7 aprile 1892 al teatro Pagliano di Firenze e ripetuta in altre città, tra cui la diletta Palmi, dove la sua notorietà era già grandissima al punto che ad una sorella di Leonida Répaci fu imposto il nome Tilda.

Vita dura e rivincita per L’Arlesiana

Da questo momento comincia la stagione più feconda per il compositore che si appresta a lavorare sul libretto de ‘L’Arlesiana’ da Leopoldo Marenco liberamente tratto dalla novella di Alphonse Daudet per il cui omonimo dramma Bizet aveva composto le musiche di scena.

Per lavorare serenamente Cilea, assistito dalla sorella Lina, si appartò in campagna e, una volta completata la composizione, si trasferì a Roma per il lavoro finale di lima e strumentazione.

“Quivi – ammetterà – in una placida sera proruppero spontanee dal mio cuore le nostalgiche note del ‘Lamento di Federico’, nella cui parte, per inciso, la sera della prima, il 27 novembre 1897, c’è un giovanissimo tenore il cui nome raggiunge d’un balzo la luminosa sfera della celebrità: Enrico Caruso.

Malgrado il successo l’editore Sonzogno impose drastici tagli ai quali, seppur a malincuore, Cilea dovette arrendersi ma fu tale l’amarezza che non esitò a tornare all’insegnamento a Firenze, dove nel frattempo aveva vinto il concorso per la cattedra di Armonia, ritirando la partitura e tenendola sequestrata per vent’anni: sarà solo dopo l’acquisizione di casa Sonzogno da parte di Piero Ostali che Cilea rimetterà a posto l’opera e L’Arlesiana rientrerà trionfale alla Scala.

Il trionfo di Adriana Lecouvreur

Forse pentito per l’ingiusto trattamento Sonzogno commissionò a Cilea una nuova opera. Fra i libretti proposti la scelta cadde su Adriana Lecouvreur un’opera in quattro atti di Arturo Colautti su pièce di Scribe e Legouvé.

Andata in scena la sera del 6 novembre 1902 al teatro Lirico di Milano, L’Adriana riportò un trionfo grandioso e fu rappresentata nei teatri di tutto il mondo, da Lisbona, a Buenos Aires, a New York, al Covent Garden di Londra.

Sull’onda del successo, Cilea pensa a nuovi impegni essendo affascinato dalla Firenze medicea e dalla Toscana.

Sfumata l’aspirazione di musicare la Francesca da Rimini di D’Annunzio, per le richieste del poeta ritenute troppo gravose da Edoardo Sonzogno, si concretizzò, invece, l’ipotesi di Gloria, tragedia in tre atti su pièce di Sardou, scritta per lui dal fraterno amico Arturo Colautti, per dedicarsi alla quale Cilea lasciò persino l’insegnamento ritirandosi nella tranquilla cittadina ligure di Varazze.

Cilea, l’amore e la Gloria

Qui, concedendosi solo ‘brevi riposi all’aperto’, durante la cerimonia del varo dello yacht Cio-Cio-San, costruito dai Baglietto per Giacomo Puccini, conobbe la ‘signorina Rosy Lavarello’ che divenne presto la ‘dolce, amatissima, inseparabile e ideale compagna’ della sua vita. Si sposarono, infatti, il 26 giugno 1909 nel Santuario Cateriniano della SS. Trinità e vissero insieme per quasi mezzo secolo con rispetto e reciproco amore.

Gloria, frattanto, sotto la magica guida di Arturo Toscanini, fu rappresentata il 15 aprile 1907 alla Scala, davanti al pubblico che gremiva i palchi, la galleria e il loggione, replicando il grande successo a Genova, Messina, Roma e al San Carlo di Napoli.

Il silenzio e il ritorno

Dopo di che i contrasti con la casa editrice e il silenzio che durerà oltre vent’anni. E che vedrà Cilea, onorare l’incarico conferito dal Municipio di Genova per la celebrazione del centenario della nascita di Giuseppe Verdi, componendo ‘Il canto della vita’, poema sinfonico su versi di Sem Benelli, e abbandonare definitivamente, nel 1913, la sua carriera di operista (sebbene non manchino notizie di progetti successivi, come Il matrimonio selvaggio e La Rosa di Pompei, dei quali però non si hanno riscontri neanche nei Ricordi), tornando all’insegnamento. Prima al Bellini di Palermo e poi nel caro S. Pietro a Majella che Cilea riporterà agli antichi fasti distaccandosene solo per raggiunti limiti di età, dispiegando le sue doti morali ed artistiche e spartendo con i suoi allievi i segreti dell’arte che amava tanto profondamente.

Intanto, casa Sonzogno era passata di mano. L’aveva rilevata il ricco industriale milanese Piero Ostali che avviò con il compositore calabrese un rapporto di amicizia che durerà per tutta la vita, battendosi per il reinserimento delle opere cileane nei cartelloni dei teatri.

L’Adriana a Reggio al Teatro Cilea

Cominciò così l’ascesa dell’Adriana alla quale Cilea assisterà per l’ultima volta all’età di 82 anni, nella sua Reggio, presso il teatro comunale che in quell’occasione venne a lui intitolato, e con essa dell’Arlesiana, anche se il dispiacere più grande rimase per lui l’infelice cammino di Gloria, tanto che negli ultimi giorni di vita, nell’abbracciarlo, sussurrò a Piero Ostali: “ti ringrazio ancora tanto per quanto hai fatto per me, ma ti raccomando Gloria”.

Il mausoleo a Palmi

Cilea morì il 20 novembre 1950 a Varazze, che gli conferì la cittadinanza onoraria, portando con sé il mistero di una gloriosa carriera artistica interrotta senza una ragione apparente. Non ebbe la forza di contrastare gli intrighi e le avversità che gli si presentarono davanti. Del resto, come confessava egli stesso ponendo fine ai suoi Ricordi: “io vorrei tutti felici e contenti. Per ciò mi sono sempre adoperato a non procurare ad alcuno il minimo malumore – sebbene – la nequizia degli uomini mi ha procurato imbarazzi e amarezze non lievi”.

Oggi Cilea riposa finalmente in pace nella sua diletta Palmi, nel mausoleo creato per lui da Guerrisi e Bagalà, con alle spalle il mito di Orfeo e al centro la statua trionfale della musica che lo accompagna nel suo sonno eterno.

Sul sacello, incise nel ferro, Arlesiana, Adriana e Gloria, le tre creature della sua fantasia e del suo sognato ideale.

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