Dalida: tra Lucien Morisse e Luigi Tenco
“Ciao amore ciao”, la Dalida vera quella schietta e la diva Dalida iniziano e finiscono con due uomini Lucien Morisse e Luigi Tenco
L’unica vera Dalida, quella più schietta, fragile e combattiva, quella smarrita e quella felice, quella ignara del successo e la diva Dalida ha inizio e fine con due uomini. Il primo e l’ultimo, «il suo cuore» e il suo amore. Entrambi portati via da un colpo di rivoltella. Ironia della sorte? Beffa di un’esistenza vissuta intensamente e desolatamente a rincorrere la felicità. In mezzo tante comparse più o meno importanti, chi per un figlio mai venuto al mondo, chi per i momenti spensierati, chi per le mille lacrime versate, qualcuno per iniziare un cambio di rotta, nella vita e nella musica, e qualcun altro per un po’ di calore in una notte umida.
Richard Chanfray è l’ultimo ad aver lasciato un segno. Ma i due pilastri di Dalida restano Lucien Morisse, che la portò al successo all’Olympia di Parigi e la guidò fin quando lei non chiese il divorzio, e Luigi Tenco, un dolore infinito che la segnò per sempre. Fino a quel tragico «la vie m’est insupportable».
Comincia così la storia di una donna, prima ancora che di Dalida, la Edith Piaf moderna, la Callas della musica leggera, la “Faraona”. Una calabrese a Parigi, che ha in tasca gli ultimi spiccioli e nessuna speranza, se non quella di poter almeno fare ritorno fra le braccia della famiglia lasciata al Cairo, dopo il sogno cominciato con una fascia da miss. Molto poco nella Parigi fredda degli emigranti e delle cantanti neorealiste: «una città che non ha nulla a che vedere con il paese che ha lasciato; nessuna traccia di quella incoscienza solare e stracciona della gente d’Egitto». Il salto cinematografico non funziona. E quando tutto sembra finito, si apre il sipario dell’Olympia. A guardarla dall’altra parte, per un provino a tutti i costi, ci sono Bruno Coquatrix, Eddie Barclay e Lucien Morisse. Ma è quest’ultimo, il più introverso dei tre, l’uomo del destino. «Di origine polacca, con un padre scomparso nei campi di concentramento nazisti, Morisse ha allora ventisette anni, molti dei quali passati in giro per le radio». Da un anno è direttore artistico di Radio Europe 1, piccola emittente dallo stile accattivante, pronta ad essere il canale del cambiamento profondo della canzone. Morisse ha bisogno della sua stella. E la trova in Dalida, “l’etrangère au paradis” all’altezza dei tempi. Morisse ricorda solo che da quella sera non smette più di pensare a Dalida. Pur trovandola orribilmente vestita, rimane subito conquistato da Iolanda Gigliotti: «quel corpo bellissimo di cui non sembrava affatto consapevole, gli occhi impressionanti, da Orchidea nera, il piccolo neo sulla guancia sinistra. E poi la sua voce strana, italiana, calda, orientale, maschile e femminile insieme, capace di commuovere e far sognare». I rotocalchi non ci mettono molto a diffondere voci sulla presunta love story tra Dalida, figlia del sole e del deserto e l’ombroso Lucien. «Due emigranti accolti dalla Francia, entrambi orfani di padre e con la stessa voglia di riscatto, la stessa determinazione a conquistare il successo. Il loro però è un amore difficile». Morisse è già sposato e una relazione extraconiugale ufficializzata susciterebbe uno scandalo tale da non giovare alla carriera di entrambi. Si sposeranno l’8 aprile 1961 al Municipio XVI, “sous le ciel de Paris”, davanti agli occhi commossi dei francesi. Ma è col matrimonio che cominciano i guai: la vita di coppia non è l’amore. Morisse è colui che l’ha inventata, il suo pigmalione, ma non può insegnarle il sentimento. Dalida lo ha sposato solo per dovere e gratitudine. Rimarrà una grande amicizia, tanto che Morisse sarà accanto a Dalida anche durante la storia con Tenco, nei giorni del dolore, fino alla mattina del 1970. Anche lui tradisce Dalida con una pistola.
Galeotta fu “Ciao amore ciao”, testamento inconsapevole che fa incontrare Dalida e il giovane cantautore originario delle Langhe ma già figura storica della scuola genovese: Luigi Tenco.
La star francese si innamora subito della canzone e del suo autore così introverso, tanto da convincerli a scendere nell’arena sanremese.
Quello con Dalida è un incontro del destino, maturato attorno ad un tavolo di poker organizzato da Ennio Melis, responsabile dell’Rca italiana.
Ci mettono poco a fare amicizia e quando Melis e un altro responsabile dell’Rca volano a Parigi, troveranno inaspettatamente Tenco mentre scende le scale di casa con Dalida in braccio a causa di una frattura della caviglia.
Ma dell’incontro esistono almeno altre due versioni: la stessa Dalida sostiene che avvenne al bar dell’Rca, sulla Tiburtina.
Resta il fatto che Tenco rappresenta una svolta consistente, nella già fragile esistenza di Dalida.
Un uomo dalla dimensione contadina mista a riscatto, radicata nell’animo, le cui canzoni alternano melodia struggente, passione, strano individualismo e forse un libertarismo ingenuo che prende di mira la democrazia formale dell’ordine borghese.
Tenco però canta anche l’amore fisico, quasi patologico, quella difficoltà connessa alla diversità delle persone. Forse è questo aspetto, ma anche i testi e le musiche indimenticabili per generazioni, che attrae Dalida.
Certo non è una passeggiata stare con Tenco, uno che non sa se dopo Sanremo vuole sposare Dalida o fuggire in Kenia con Valeria, ragazza romana con cui intrattiene un amore puro e adolescenziale. Tenco è irritante, scostante, ossessionato, un uomo contraddittorio ed è questo il suo fascino.
La cotta di Dalida per il tenebroso Tenco è un fatto confermato da molti amici della coppia. Solo che Tenco è un principe azzurro sfortunato, morbosamente attratto dalla bella Dalì o forse dal “mostro sacro” Dalida.
Si vociferò persino di matrimonio, la complicità sessuale era sotto gli occhi di tutti. Paolo Dossena dell’Rca, che seguiva i due durante il festival, non ha dubbi sulla sbandata di Tenco per Dalida.
La morte del cantautore scosse l’Italia puritana, quell’Italia che eliminava “Ciao amore ciao” e mandava in finale “Io, tu e le rose”.
Il caso Tenco fu una tragedia senza fine per la povera Dalida.
In quella maledetta stanza n. 219 della dépendance del Savoy, moriva la promessa della nuova canzone italiana e con lui se ne andava per sempre la spensierata Dalì.