Dalida, la Calabrese di Parigi
Mito della musica leggera, Iolanda Gigliotti in arte Dalida, figlia di emigrati calabresi di Serrastretta, era nata il 17 gennaio 1933 a Choubrah, alle porte de Il Cairo
Olympia, tempio della musica leggera parigina, 4 aprile 1981. L’immagine di Dalida con la mano destra chiusa a pugno sul cuore e la faccia rivolta verso l’alto, immobile sul palco, mentre rimbombano gli applausi nel finale di Je suis malade, è rimasta nella memoria dei suoi fan.
Fu l’ultima volta. Per suggellare i 25 anni di carriera iniziati proprio lì all’Olympia, Dalida scelse un’esecuzione teatrale, indimenticabile, del testo di Lama e Dona che parla di amor perduto e tumulti dell’anima, gli stessi che hanno segnato la sua vita.
Fin da quando Iolanda Cristina Gigliotti, in arte Dalida, figlia di emigrati calabresi di Serrastretta, venne al mondo il 17 gennaio del 1933 a Choubrah, piccolo sobborgo alle porte de Il Cairo.
L’infanzia in Egitto
Cresce nel quartiere di immigrati e studia nella scuola italiana delle suore salesiane. Da bambina, una malattia agli occhi la costringerà a subire diversi interventi, anche in età adulta, e a portare occhiali spessi che la faranno prendere in giro da tutti, mentre la notte, a letto, sognerà di diventare una stella del cinema americano, come Rita Hayworth o le dive del melodramma amate dal padre, primo violino al teatro dell’Opera, che prima di addormentarsi le sussurrava: un giorno avrai ‘occhi da faraona’. Lo stesso padre che un brutto giorno, etichettato come fascista sarà mandato in un campo di concentramento dagli inglesi, padroni dell’Egitto, tornando quattro anni dopo e morendo quasi subito.
Sarà la madre Peppina a crescere i tre figli cercando di sbarcare il lunario col lavoro di sarta e Iolanda diventerà donna sognando il cinema e ascoltando la musica che, finita la guerra, arriva dalla Francia e dall’Italia.
Dopo la scuola comincia a lavorare come segretaria ma grazie al suo corpo, sbocciato in tutto il suo splendore, vince il concorso di Miss Ondine, che provoca subbuglio in famiglia e il taglio a zero dei suoi capelli, come punizione, inflitta dalla madre e dal fratello maggiore Orlando, mentre Bruno (l’Orlando, manager di domani) e la cugina Rosy tifano per lei.
Ormai niente la ferma più e poco dopo arriva la fascia di Miss Egitto che le aprirà le porte del mondo del cinema. Comincia con Joseph et ses frères, con il compagno di infanzia Omar Sharif, poi gira Sigara wel kas e La Masque de Toutankhamon, durante il quale il regista De Gastyne la invita a Parigi per un provino.
La fortuna a Parigi
Così la vigilia di Natale del 1954 Iolanda lascia per sempre l’Egitto e vola a Parigi per tentare la fortuna come attrice.
L’inizio in un paese freddo e ‘in bianco e nero’ è durissimo.
Il cinema non funziona. Solo con il cabaret arriva qualche ingaggio. Il primo è a Villa d’Este, locale bene degli Champ-Elysées, dove su parere del creativo Albert Machard adotta il suo nome d’arte: “sarà per sempre Dalida, tre sillabe, una formula magica”.
Dopo un anno di stentata vita parigina, su consiglio di Alain Delon, suo vicino di appartamento, Dalida si presenta al concorso radiofonico dell’Olympia.
Ad ascoltarla ci sono Bruno Coquatrix, Eddie Barclay e Lucien Morisse. Un trio che diventerà fondamentale nella sua vita.
Dalida ce la fa. Morisse le consegna il testo di Madona, una canzone melodico-religiosa su cui lavorare.
Il mito ha inizio
La scuderia Barclay si mette alla ricerca della canzone giusta per la nuova stella e arriva ‘Bambino’, cover originale del ‘Guaglione’ italiano che presto diventa la colonna sonora della Francia: 500.000 copie di dischi venduti e per Dalida è la gloria.
Seguiranno Miguel, Gondolier, lo storico ‘concerto di Bobino’, tournèe in tutta Europa, apparizioni in tv fino agli anni magici in Italia, il pellegrinaggio a Serrastretta, l’incontro con Modugno e l’incisione di ‘Ciao, ciao bambina’.
Le voci dei rotocalchi sulla love story tra Dalida e Morisse si placano l’8 aprile 1961 quando i due si sposano sotto gli occhi commossi di tutti i francesi.
Ma il matrimonio non funziona e pochi mesi dopo Dalida pianta Lucien che rimarrà tuttavia un punto di riferimento fisso per la sua vita.
Il primo disco di platino
Gli anni Sessanta e Settanta significano per Dalida successo, popolarità, premi, come l’Oscar della canzone, i Bravo francesi e il primo disco di platino.
I sondaggi la consacrano cantante preferita dai francesi e grazie a ‘C’est irreparabile’ diventa anche icona gay.
La nouvelle vague e la ventata yè-yè portano l’incertezza nella carriera di Dalida che riesce a reinventarsi e a superare disagi e solitudine grazie anche all’arrivo a Parigi del fratello Bruno, Orlando, la sua fedele ombra.
Ma la ferita profonda di quel terribile febbraio 1967 è alle porte.
Tenco e la “burrasca”
‘Ciao amore ciao’ è la canzone che fa incontrare Luigi Tenco e la star francese.
Dalida si innamora del testo e del suo autore. In coppia partecipano al festival di Sanremo del 1967, ma la giuria elimina la canzone dalla finale e la sera del 27 gennaio Tenco si suicida con un colpo alla tempia.
È Dalida stessa a scoprirlo entrando nella sua camera d’albergo quando ormai è troppo tardi.
La tragedia di Tenco le spezza la vita e la spinge a tentare il suicidio nella stessa camera 410 dell’hotel Principe di Galles dove aveva soggiornato con lui prima di Sanremo. Viene salvata da una cameriera ed uscirà dallo stato di incoscienza dopo cinque giorni.
Finita la drammatica parentesi sanremese, nasce la seconda Dalida, con un look diverso, uno stile meno commerciale, più melodico. È anche il periodo di Lucio, un ragazzo italiano con il quale scopre di aspettare un figlio che tuttavia decide di non avere, un gesto che rimpiangerà per tutta la vita.
La terza fase di Dalida
Con gli anni Settanta ha inizio la terza fase di Dalida. Frutto di un percorso di ricerca spirituale in Nepal, la diva sensuale degli anni ’50-’60 lascia il passo alla mistica che indossa lunghi abiti bianchi in scena e fuori.
Tra lo scintillio del successo e le canzoni la morte continua a fare il vuoto intorno a lei: il 15 settembre del 1970 arriva la notizia del suicidio di Lucien Morisse, a soli 41 anni con un colpo di pistola.
La serenità tornerà a partire dal ’71-72 con la voglia di vivere, di cantare e un altro uomo, Richard Chanfray, l’originale conte di Saint-Germain che riuscirà a ridarle il gusto della vita, del sesso, del mondo.
Il duro conto degli anni ’80
Gli anni ’80 presentano un duro conto a Dalida.
Uscita con le ossa rotte dal c.d. periodo ‘pantera rosa’ con Mitterand, l’operazione che le impedirà definitivamente di diventare madre, il rimpianto di quel figlio che ha scelto di non avere, il giro di boa dei 50 anni e il terrore della solitudine le lasciano dentro una grande amarezza.
Ma il colpo di grazia giunge nel luglio del ’73 con la morte di Richard Chanfray, suicida su un sentiero di Ramatuelle insieme alla nuova compagna Paula.
Un’altra morte sulla sua strada dalla quale non si riprenderà più e che la porterà, tra la costernazione generale, a tagliare la sua chioma bionda, simbolo stesso della sua immagine scenica.
Dal grande torpore la tira fuori il fratello Orlando col programma tv ‘Dalida idéale’ e un nuovo lp, il penultimo, Dalì. Ma a metà del 1985 riesplode il problema agli occhi e Dalida si fa convincere ad operarsi.
Due mesi dopo è di nuovo pronta per il suo pubblico e per l’amore: un dottore un po’ più giovane di lei, Francois.
Poi arriva il film promesso dal regista egiziano Chahine: ‘Le sexiéme jour’ dal romanzo di Andrée Chedid.
Dalida si trasferisce per tre mesi vicino al Cairo dove diventerà Saddika una lavandaia cairota degli anni quaranta.
Sarà un’esperienza totale e nera che si porterà dietro anche dopo il ritorno a Parigi.
La prima internazionale al Cairo alla fine di settembre del 1986 è un trionfo popolare: “tre milioni di egiziani – ricorda Orlando – che continuavano a gridare il suo nome per ogni strada”.
L’inizio della fine
È l’ultimo barlume di luce. Poi di nuovo il buio. Dalida rimane sempre chiusa in casa. Evita di incontrare gente. È impenetrabile, finge di sorridere per fare contenti gli altri ma è in una disperazione totale.
L’ultimo atto è il concerto ad Antalya, in Turchia, drammatico dal punto di vista dell’organizzazione ma impressionante per l’intensità e l’anima che Dalida ci mette dentro. Il pubblico è in delirio e molti si mettono a piangere quando canta ‘Mourir sur scène’, un testo premonitore.
È l’inizio della fine. Una fine premeditata come nel lontano 1967, ma stavolta ci riuscirà.
Pardonnez-moi…
È sabato due maggio del 1987. La giornata passa come tutte le altre. La sera Dalida dice alla cameriera Jacqueline che ha un impegno a teatro, tornerà tardi e l’indomani non vuole essere disturbata. Esce con la sua Austin, ma in realtà fa il giro dell’isolato. Imbuca una lettera per il fratello e ritorna a casa, senza farsi notare, dall’entrata di servizio. Si versa un bicchiere di whisky e sale in camera da letto preparandosi per la notte, con calma metodica, come tutte le sere. Scrive un biglietto che lascia bene in evidenza e apre l’armadietto dei medicinali da cui tira fuori diversi flaconi di sonnifero. Si sdraia sul letto, con intorno i libri, i dischi, le videocassette e gli oggetti più amati preparando la sua partenza, come una faraona, in una mano il whisky e nell’altra i sonniferi, un cocktail fatale, che non lascia scampo. Quando ha finito spegne la luce. Addormentandosi al buio. Per sempre.
Sarà Jacqueline a scoprirne il corpo, quando alle cinque del pomeriggio capisce che qualcosa non va. Bussa e non ricevendo risposta entra nella sua stanza. Accende la luce e la vede accasciata sul letto con gli occhiali ancora sul naso e il bicchiere di whisky in mano. Urla e chiama Orlando. Il fratello non ci crede e quando le stringe la mano fredda, grida contro tutto e tutti, come impazzito.
Dalida si è spenta alle undici del mattino del 3 maggio 1987 lasciando solo poche parole su un biglietto: ‘Pardonnez-moi. La vie m’est insupportable’.
E una lettera che qualche giorno dopo arriverà a destinazione, il cui contenuto nessuno conoscerà mai.
Nella sua stanza Orlando organizza una vera e propria camera ardente, con fiori e candele dappertutto, mentre le note delle sue canzoni si diffondono nell’etere e Dalida sembra riascoltarle, finalmente serena, dentro il vestito dorato da regina, con la gente che viene a salutarla per l’ultima volta.
La morte di Dalida lascia sotto shock la Francia e il mondo intero. L’otto maggio al funerale nella chiesa della Maddalene c’è una folla enorme e mentre l’organo intona ‘Ciao ciao bambina’, Claude Manceron le rende il saluto più giusto: “Yolanda au revoir, Dalida merci!”.
Dalida è sepolta nel cimitero di Montmartre a Parigi che la ricorda con una piazza in suo onore (Place Dalida) e un busto di bronzo che la raffigura. La sua leggenda sopravvive ancora oggi con i milioni di dischi venduti e la sua voce indimenticabile.