C’eravamo tanto amati: scherzi, burle e secchi d’acqua

I discoli degli anni ’70-80 un mondo di burloni e lestofanti che non nuocevano più di tanto e che sono stati l’ultimo scampolo di strafottenza (incoscienza!) ma anche di gioia di vivere

scherzi giochi al mare

Scherzare e ridere era obbligatorio, anche se la vita era un’angoscia perenne di mancanze e privazioni, anche se eri povero in canna o brutto come uno scorfano, anche se non trovavi sbocchi, amori, soddisfazioni e le frustrazioni ti piegavano. La medicina era una: ridere. Ridere da soli o con gli amici, alle spalle di qualcuno o ridere di sé stessi, per cause impreviste, per burle, beffe e sfottò.

Si rideva per stronzate qualsiasi: suonare campanelli e scappare, ad esempio. O rispondere alla vecchia con una supercazzola, ma quella, sgamata come la guerra, in dialetto te le prometteva: “bellu viri chi ciù ricu a to mamma”, che era minaccia peggiore del braccio della morte. Gli scherzi telefonici, dalle cabine in genere e a sera inoltrata, tutti in gruppo in un metro per uno, alcuni semplici, altri più sofisticati, erano uno show. Un caro amico che mangiava pane e volpe tormentava il suo presunto futuro suocero, commerciante evasore fiscale, spacciandosi per finanziere, e la prima volta gli fece prendere un coccolone; intanto, noi tutti giù a sganasciarci.

Passando con l’auto chiedevamo indirizzi inesistenti: scusi, sa dove si trova via Brittola? Non conosco, ma è qui vicino? Così mi hanno detto. Poi filavamo sogghignando come idioti.

Una volta con quei disgraziati dei compagni di classe, all’edicola di piazza Italia: è uscito Diabolik? Si, rispose l’edicolante! E noi: presto, inseguiamolo! E via, correre. Deficienti al cubo, ma che allegria.

C’erano scherzi omologati e ripetuti: a Carnevale si soffiava il cappello ai vecchietti e si attaccava ad una molletta retta da un filo agganciato al ramo di un albero. Il cappello andava su e giù fin quando quello non scrutava il ragazzaccio che lo manovrava, e anche qui finiva con corse a perdifiato. Vai ad acchiapparli, quei discoli degli anni 70 –80. Non c’è più educazione, sostenevano i boomers dell’epoca.

Sui diari scolastici, soprattutto in quelli tutti belli ordinati e puliti delle compagnelle, si disegnavano enormi falli alati: vola sulle ali di Pegaso, si scriveva sotto, guardandole poi sbiancare o arrossire; oppure con la punta della BIC si incideva un cerchio, portando via la carta e lasciando il buco, firmato naturalmente dalla banda omonima. Si nascondevano libri, cartelle, si mangiavano le gomme pane sputando i pezzi dalle finestre dello scientifico, alle gite scolastiche si prendevano le macchine fotografiche delle amiche e si scattavano ritratti delle zone intime di tipi come Peppe detto Proboscide o Natu Scecchigno. Quando poi le foto venivano sviluppate, arrivavano i genitori con le mazze da baseball.

Durante l’ora di matematica inventammo “lo sbarco in Normandia”: tutta la classe doveva mugugnare assieme in un crescendo compatto, tipo flotta aerea in avvicinamento, fin quando la prof. non esplodeva in urla selvatiche.

Una volta ci sospese tutti: qualche giorno dopo, per uno strano caso della sorte, i cancelli del liceo “da Vinci” vennero trovati chiusi con catena e lucchetto e dovettero intervenire i vigili del fuoco per aprire; scattò una denuncia verso anonimi. Il mese successivo altri buontemponi scrissero un volantino di protesta politica: il preside si chiamava Crea e il ciclostile era intestato con la frase “Dio Crea, Crea distrugge”. In altra scuola la prof. Tirannica ogni volta ripeteva di ringraziare lui – indicando il crocefisso – e quella volta non capì subito perché tutti si sbellicavano: al posto della sacra effige avevano attaccato la copertina di Maghella, noto giornalino divulgativo. Chi non scherzava era un polpettone, un maccarruni i casa, uno sfigato triste.

D’estate si giocava a battaglie d’acqua: ma non da bambini, eravamo scecchi grandi, alcuni sposati e con figli: agguati, buste piene d’acqua, secchi e lavamani, dai balconi, dalle terrazze, uscendo fuori da posti inusuali. Una sera Totò scappò scalzo lungo tutta la via Furnari, per sfuggire. Al ritorno disse che gli sembrava di aver calpestato delle uova. Andammo a guardare e c’erano i cadaveri di una dozzina di blatte, e che schifo però.

Una banda di scapestrati s’imbucava ai matrimoni. Si preparavano con giacche e cravatte e scarpe domenicali, e si presentavano ai banchetti, soprattutto in quelli tipici, con due o trecento invitati. Nessuno controllava, non esistevano i tavoli con i nomi, se qualcuno gli chiedeva bastava dire “cugino” o “compare”. Non era tanto per mangiare (anche per quello!) quanto per ballare con le ragazze, e ceddiare senza posa. In seguito, la banda di allegroni si raffinò, portando anche la “busta” per il regalo, naturalmente vuota e con scritto “i cugini” … e nomi a casaccio.

Ti leggevi la Gazzetta dello Sport, seduto su uno dei tanti bizzoli, e qualcuno gli dava fuoco; lasciavi un minuto il Boxer o la Vespa, e c’era sempre lo stronzo che ti svitava la candela. Lasciavi la macchina e ti smontavano una ruota, lasciandola sui mattoni. O te la avvolgevano di carta igienica. Nel 1984 tutti i segnali di divieto di sosta di Reggio Calabria vennero trasformati nel marchio dei Ghostbusters, col fantasmino in bella vista. Di notte ci si piazzava con lo stereo a duecento watt sotto casa del rompiscatole di turno per due minuti, con gli AC/DC a palla. Poi arrivava la polizia, ma i teppisti guardavano la scena da lontano, piegati dalle risate.

Era un mondo di burloni, di lestofanti picareschi, che oggi non avrebbero avuto scampo. Ma non nuocevano più di tanto e, alla fine della giostra, sono stati l’ultimo scampolo d’autentica strafottenza, di gioia di vivere e di incoscienza.

Strafottenti loro verso il mondo, mentre invece oggi è strafottente il mondo verso tutti, in questo presente che fa ridere solo i polli, appena prima che gli venga tirato il collo, nella grande batteria d’allevamento in cui stanno trasformando la gioventù.

Stavo scherzando, dannatissimi moralisti.

Non sono vere le cose che ho raccontato.

Le invento, per sembrare più togo. 

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