C’eravamo tanto amati: Reggio, canta che ti passa

Reggio ha sempre avuto una forte tradizione musicale e il canto fa parte del "genoma" collettivo ma i pezzi forti erano quelli inventati e "storpiati" dai giovani quelli "toghi"

Mandrax in concerto (dal sito ufficiale mandrax.it)

Reggio ha una forte tradizione musicale, anche se a livello nazionale ha espresso pochissimi artisti degni di nota (Mino Reitano, che è stato l’unico ad entrare più volte nelle hit-parade, i Mandrax che sono nelle enciclopedie del Rock e con “Natino ‘na teni” hanno sintetizzato il carattere ancestrale del reggino, e qualche altro); però la musica e il canto hanno sempre avuto un ruolo importante, dalla Magna Grecia (i nostri avi cantavano e ballavano tantissimo) ai giorni nostri.

Oggi in città ci sono numerosi musici che allietano le serate sullo Stretto, bravi e meno bravi, e spaziano tra tutti i generi: uno spasso!

Cantare fa parte del genoma collettivo del popolo reggino, ed è anche più facile esibirsi: tra autotune e convinzione assistiamo anche a penose serate di guaiti e grugniti; soldi e fama hanno sostituito ampiamente – non solo a Reggio, sia chiaro – la fascinazione interiore dell’arte.

Prima non era così. Gli artisti erano pochi eletti, ma in compenso i popolani cantavano tutti, e tantissimo. Cantavano i bambini, i genitori, gli impiegati, gli operai, le casalinghe, i nonni, gli zii e le zie. Senza l’ausilio di strumenti musicali, si cantava e basta.

Passeggiando, cucinando, sotto la doccia, facendo surbizza, lavorando. Cantavano i muratori impastando cemento (ricordo uno sotto casa mia fissato con “perché ti amo” dei Camaleonti, solo il ritornello a loop), cantavano i capitreno tra un biglietto e l’altro (uno replicava Mina, l’altro Morandi), cantava la bottegaia, il tassista, il pescivendolo, il ragioniere chiudendo i bilanci.

Si cantava in classe, dalle elementari alle superiori: i nostri inni erano Settembre di Fortis, Tanz Bambolina di Camerini, La domenica andando alla messa di Rosanna Fratello con le parole cambiate, Wish you were here dei Pink Floyd, My Sharona dei Knack, Quanta fretta ma dove corri di Bennato (ormai s’intitola così) e Piccolo Grande amore di Baglioni (eravamo tutti innamorati di qualcuna, a quell’epoca) con i puristi che imprecavano forte.

Un tipo ci diede un passaggio per un paesino raggiungibile solo con una strada tutte curve, che lui affrontava a velocità elevata e ad ogni curva sbraitava ragliando “Non sono una signora”. Scendemmo dall’auto terrorizzati, ma piegati dal ridere.

Il mio amico Jena Plinsky voleva che al suo arrivo al bar cantassimo tutti il refrain di Rocky Uno. Noi lo facevamo battendo le mani e lui si atteggiava a pugile che sale sul ring, fendendo l’aria con i pugni.

C’era buon umore e probabilmente una sana dose di follia, e allora via con le canzoni, di ogni tipo ed epoca.

Una vicina di casa ritagliava i testi dei brani che uscivano su “Sorrisi e canzoni” e li incollava in un quadernone armata del quale, da sola o in compagnia di amiche, si sedeva in balcone nei pomeriggi d’Estate e sollazzava il vicinato con il repertorio di Marcella Bella, Nada, Loredana Bertè, Ricchi e Poveri e compagnia cantando.

Avevo un amico che si sentiva uguale a Bob Dylan, ma sembrava più a Topo Gigio con la raucedine.

C’era il patito di Cocciante che però stonava forte e Margherita diventava un lamento greco prima e una iena ridens poi.

C’era quella che imitava Mina ed era precisa alla sirena dell’ambulanza.

C’erano legioni di sosia di Celentano, che non solo ne replicavano i pezzi, ma si agghindavano pure tali e quali al molleggiato.

C’erano i patiti d’Opera Lirica, che però quando stonavano era uno strazio.

Arrivò poi l’epoca dei chitarristi da falò, ciascuno con qualche cavallo da battaglia scelto tra Battisti-Baglioni-De Andrè-De Gregori-Dalla-Daniele. Ad una certa ora svanivano tutti – il falò era propedeutico al sesso – ma loro si ostinavano a strimpellare Le bionde trecce fino all’alba.

Ma i pezzi forti di noi giovani – i tipi toghi – erano quelli inventati, grazie alla duttilità del dialetto, a volte in inglese verosimile, spesso divertenti e boccacceschi.

Ricordo che “I Gotcha” di Joe Tex diventava “Ajaccio”, e la rima si rifaceva al ghiaccio ante Nove settimane e mezzo.

“Banana Boat” di Belafonte faceva “A Don Cicciu ci futtiru la banana – e il coro rispondeva – figghi di buttana ricitimi cu fu – Ieeeuuu, non fuia ieeeeuu – e ancora il coro – botta di sangu ricitimi cu fu”.

Jesahel dei Delirium: Jesahel, i livi ra chiana…

Jesus Christ Superstar: Jisus Scrai, cu ‘na suppizzata, si indiu piì n’atra strada- ‘ncespicau ‘nti na nuci – e cariu cu tutta a …”.

Yuppi Du di Celentano era “Futti tu”. E poi parole ad muzzum, come l’originale d’altronde.

Il ritornello di Wuthering Height di Kate Bush faceva “Mbistia, cariaaa ca motuuuu”.

E come dimenticare “Paese mio che stai a Favazzina” o “Sono una donna non sono una Fanta” e ancora “La baligia sul letto quella di un lungo viaggio” col ritornello eroico “Sta mutanda non vali- mentattila ‘nto cul… ‘sta casetta non bali … “. La potenza del dialetto esaltava Iglesias.

Sulle note di “Tequila” si cantava “Tri chili mi pisa a pizza, tri chili e forsi i chiù, tri chili quandu mi riz…” Disgustosi davvero, questo eravamo.

Heidi faceva cosini sui monti e uccideva la tenerezza. Passerotto non andare via nel tuo cu…ore il sole muore già, devastava Baglioni. Chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato Vincenzo spoetizzava Rimmel. Seduto in quel bidet io non pensavo a te distruggeva 29 settembre e tutta l’opera omnia di Battisti. E non dici una palora sei più zocc… che mai tradiva l’ode amorosa dei Pooh. La tamarraggine dell’epoca non aveva confini.

Che dire: la creatività si fondeva con l’esuberanza, e la cretineria che ne scaturiva era sublime, una vera arte del cazzeggio, rivelatrice, probabilmente, di un diverso modo di affrontare la vita.

Più idiota, forse, ma più divertente, più libero, e – certamente – più togo.

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