C’eravamo tanto amati: le “spase” della domenica
I ricordi delle "spase" della domenica, un inno alla gioia, che, tra cannoli e babà, riuniva tutti attorno a un tavolo che era una vera liturgia del cibo
Che poi a Reggio – e meno male – sopravvive quest’uso dei dolci domenicali, tanto radicato e diffuso che se vai in una pasticceria ti tocca metterti in fila tipo dal medico, e ascoltando le richieste degli altri ti ispiri sulle scelte.
Allora vai di cannolo e babà al limoncello, e il bocconcino con la granella di nocciola, e quell’altro con la crema al pistacchio, io voglio un diplomatico con la sfoglia, io invece una tartina di fragole: è un trionfo, un trionfo di cioccolato panna e marzapane e tutte le squisitezze del mondo.
Vorrei anche fare le prove ad uso i muluni a prova ma la despota di mia moglie non vuole, dice che sono un villano ma sono solo curioso, così come al solito, aspettando il mio turno, me ne vado indietro nel tempo.
Ripenso alle tavolate con parenti e amici, i maccheroni fatti in casa col ferro dell’ombrello e gli gnocchi aggiustati con un rapido colpo di grattugia e il culo del pane intinto nel ragù, e poi l’arrivo degli ospiti con le spase, non chiamateli vassoi per carità, noi usiamo spase, una spasa per sei persone a Reggio è di un metro quadrato, con dentro quelle strisce di cartoncino bianco per non far toccare le leccornie dalla confezione, sporche di crema che era una lussuria leccarle.
Come la volete la spasa?
Grande, naturalmente, ingordi che non siamo altri.
Erano pranzi meravigliosi e liturgie del cibo, per noi abitanti della terra da fame secolare.
Alla fine, l’apertura della bontà a centro tavola – tavola che era una little big horn di avanzi e macchie di sugo e molliche di pane e pezzetti di ogni ben di Dio – e partivano gli oh! ammirati, e c’è sempre quello che dice “Aundi i cattasti”, e l’altro che ribatte “Lavura bonu vaiu i vint’anni” anche se la pasticceria è aperta da dieci.
E mi ricordo quello zio anziano che raccoglieva e succhiava avidamente la frutta candita che tanti scartavano, al punto che ancora oggi esiste il dubbio filosofico sul perché dell’esistenza della ciliegia nel cannolo, per molti è pura estetica decadentista, io invece penso che sia un rimedio per contenere il colesterolo.
Si aprono le spase e vai allora con l’alleluia gloriosa, a masticare e gioire, arrivano amari e brandy ma ne prendi un altro ancora, i bocconcini tipo le noccioline di Super Pippo, i babà che gocciolano sulle maniche e poi le dita ‘mbiddate che, quando prendi la tazzina del caffè (ah, questa somma di profumi, questa poesia odorosa che non si vede ma si sente) ti resta attaccata come il vinavil, e una volta perdiana si fumava a tavola adesso tutti allergici e ti tocca alzarti e uscire.
Ma si prendono discorsi, la dolcezza ti colma, la dolcezza ridondante, la tipa eternamente a dieta che non sa, diceva il nonno, che con le diete vengono malattie, il goloso muto e ruminante, e quella che non ti aspetti secca come il palo di scopa che si cala otto, dicesi otto pezzi, e poi si litiga per mezzo cannolo, solo mezzo non vuole esagerare.
Un rito, una liturgia, un momento sacro, cogli l’attimo e poi godi, lo splendore della vita, le papille gustative che si fanno orchestra e suonano l’Inno alla gioia, e noi ancora qui, il filo della storia che diventa nastro per le spase e ci collega al passato e al futuro, mentre il presente è una PASTA, loro sono i PASTI, non chiamateli dolci che s’incazzano, i pigghiasti i pasti si dice, la fame atavica che è solo un ricordo, rendiamo grazie all’universo che ci ha reso uomini, babbasuni, golosi e bambinoni, come in realtà siamo, disarmati dalle spase, e dallo spasso di stare insieme attorno a un tavolo, come i filosofi che non siamo.