C’eravamo tanto amati: la televisione degli anni ‘70

Circondata dall'immancabile abat-jour e guarnita dai centrini col merletto, la Tv dei reggini anni '70 aveva un altro sapore, quello di storie ingessate, forse, pudiche al limite del ridicolo, ma ricche di contenuti e rigorosamente in bianco e nero

tv anni 70

In ogni casa c’era un televisore: voluminoso e pesantissimo, con una manopola per cambiare canale molto semplice (i canali erano due), un’altra manopola piuttosto misteriosa che si poteva far girare a vuoto e non abbiamo mai saputo a cosa servisse, e l’interruttore d’accensione grosso e rosso come una ciliegia. Ma prima di pigiarlo e accendere così la tv, si doveva mettere in funzione lo “stabilizzatore”, un congegno elettrico massiccio che si poggiava direttamente sul pavimento.

Il televisore era guarnito spesso di tendine col merletto ai bordi o fatte anche all’uncinetto, che con rito sacrale venivano accostate ai lati all’orario d’inizio dei programmi, con effetto sipario; sopra l’apparecchio si posizionava una piccola abat-jour, da tenere accesa perché la televisione al buio – secondo le vecchie zie sagge – “faci perdiri a vista” e anche dei soprammobili; sulle tv di quell’epoca ho visto di tutto: una torre Eiffel di finto acciaio, la statua della Libertà in plastica, un galeone realizzato con i fiammiferi da cucina usati, opera di qualche lontano parente carcerato, le bottigliette a forma di madonnina con l’acqua di Lourdes.

Per noi reggini era peculiare l’abat- jour: nei primi anni ’70 era infatti di tendenza quella ricavata dalle cartucce dei candelotti fumogeni sparati durante la rivolta del 1970. Immagino ne siano stati esplosi a migliaia e allora – giustamente – il reggino, che ha sempre fatto di necessità virtù, si è inventato questo portalampade. Quelle dei celerini erano di plastica durissima bianca e nera, quelle dei carabinieri invece – più pregiate – erano di metallo verde.

Alle quattro del pomeriggio dei mesi invernali nei cortili o nei balconi dei reggini si accendeva il braciere che poi veniva portato dentro e sistemato al centro di una base di legno, dove si potevano poggiare i piedi per riscaldarli – “cacciti i scarpi chi bruci a sola”, ricordava la nonna – si piazzavano le sedie e quando mancava un quarto alle cinque, il cugino più grande accendeva lo stabilizzatore – si doveva far riscaldare per un minuto circa – e poi l’apparecchio televisivo.

Sullo schermo compariva il famoso monoscopio, quell’immagine fissa con il logo della RAI che, a dieci minuti dall’inizio dei programmi, cessava di emettere il fastidiosissimo fischio e trasmetteva bella musica fino alle 16,59. Eravamo elettrizzati, arrivavano sul tavolo le fette di pane di grano con la nutella o con olio e sale e ci fiondavamo sopra, ma l’ordine tornava alle 17:00 in punto quando il monoscopio spariva e partiva, solenne la sigla.

Sulle note epiche del Guglielmo Tell di Rossini, sullo schermo scorreva la grafica di un traliccio bianco che scendeva dal cielo (nella sigla di chiusura, verso mezzanotte, la grafica scorreva al contrario, e quel traliccio se ne tornava da dove era venuto), poi compariva l’annunciatrice (la Orsomando, la Cannuli, la Elmi, erano tutte familiari come cugine) che elencava TUTTI i programmi della giornata del primo canale e anche del secondo. Quindi partivano i pupazzi animati della tv dei piccoli, o delle narrazioni – che dovremmo rivalutare – realizzate con scarsissimi mezzi, ma tantissimo talento, come “Saturnino Farandola” con Mariano Regillo, interamente girato negli studi RAI di Napoli.

Il clou però era Zorro, alle cinque e mezza: Don Diego de la Vega – Guy Williams – Zorro era l’eroe assoluto, il mito dell’avventura, della lotta contro l’ingiustizia, della gioventù;  il telefilm era anche spiritoso, ricco di allegri siparietti con il muto Bernardo, servitore ma soprattutto amico dell’eroe, e il sergente Garcia, burbero ma di buon cuore (alla fine era simpatico a tutti) condannato ad essere ridicolizzato dal protagonista che, già nella sigla, gli “disegnava” la propria iniziale a fil di spada nel fondoschiena.

Lucio Dalla, ancora ragazzo, conduceva “Gli eroi di cartone” il primo programma dedicato ai fumetti, e lo siglò con “Fumetto”, canzone che noi bambini dell’epoca conoscevamo a memoria e si cantava nei cortili del De Amicis.  Finivano i cartoni (Braccio di Ferro, Charlie Brown, Asterix, l’Uomo Ragno) e iniziava “Avventura”, con la sigla di Joe Cocker che coverizzava i Beatles innalzando un cenno di canzone – dalla fantastica suite di Abbey Road – a livelli di stratosfera rock, e fissando per sempre nella nostra memoria l’immagine di quel cameraman avventuroso che – ruotando la telecamera – se ne va in giro per il mondo.

La Tv in bianco e nero segna i ricordi della nostra generazione; quella “narrazione di vissuti” dei grandi “sceneggiati” ha inciso sul patrimonio culturale italiano. Ulisse, nel nostro immaginario, ha il viso di Bekim Fehmiu e Penelope è Irene Papas. Abbiamo trepidato per Loretta Gocci – Joan Sedley – e Aldo Reggiani – Dick Shelton – odiando il meraviglioso Arnoldo Foà – Ser Brackley nella Freccia Nera. Belfagor ci ha terrorizzato e ancora ci terrorizza, Il Ritratto di Donna Velata ci ha donato una inquietudine perenne, così come Il Segno del comando, o A come Andromeda. Grandi opere quasi sempre con attori straordinari come Paola Pitagora, o grandi istrioni come Modugno – Scaramouche era divertentissimo e la sua sigla fenomenale – e sempre con ricercatezza sia degli autori da proporre (da Stevenson a Hugo, da Manzoni a Verga, da Stendhal a Dumas a Salgari allo stratosferico Pinocchio di Collodi riletto da Comencini e straordinariamente interpretato da Manfredi).

Una televisione molto diversa, più lenta, più compassata e ingessata, pudica al limite del ridicolo (l’ombelico della Carrà provocò interrogazioni parlamentari) ma fatta meglio, più divertente e con tanti contenuti diversi.

Naturalmente questo è un giudizio mio, che oltre ad essere togo e non toco, sono anche boomer e quindi ho i neuroni contati. Ma questa è un’altra storia, mentre quella della nostra tv continuerà in qualche prossimo appuntamento di “C’eravamo tanto amati”.

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