C’eravamo tanto amati: la scuola a Reggio
La scuola ai tempi in cui non c’era l’allerta meteo e i genitori davano sempre ragione ai prof, a pena di tappine volanti e cucchiai di legno
A scuola si andava sempre. Fin quando frequentai le medie cominciava il Primo ottobre, poi cominciò la manfrina dell’inizio a metà settembre, che fece molto arrabbiare la mia generazione.
La scuola era obbligo ma non solo per legge: pioggia, diluvio, riscaldamenti guasti, mezzi di trasporto insufficienti, non c’era scusa che tenesse; i genitori dell’epoca non ammettevano deroghe.
Altro che allarme meteo: filare a scuola e basta.
Che poi a decine la marinassero (magari per fiondarsi nelle due discoteche dell’epoca aperte la mattina) è un’altra storia.
A scuola si andava a piedi o con l’autobus; quelli che venivano da fuori prendevano treni con 9 vetture “centoporte” (oggi 9 vetture non li hanno neanche gli Intercity).
La passeggiata (spesso la corsa) in direzione scuola era uno dei momenti topici del corteggiamento. Le tempeste ormonali dell’età spingevano verso percorsi alternativi che toccavano gli altri istituti cittadini: per andare al Vinci si passava prima dal Piria (c’è quella con i capelli rossi), poi dal Classico (c’è la biondina con la coda di cavallo), e dal Magistrale (la ricciolina tutto pepe); si calava il conzo a cento ami, insomma.
Di fronte la scuola si formava un assembramento vociante e rumoroso: i più fortunati erano quelli con i motorini (Ciao e Boxer in primis, poi la classica Vespa e una miriade di altre marche, Morini, Bugatti, Benelli) che partivano da casa all’ultimo minuto.
Durante la “ricreazione” si mangiavano panini enormi. Chi se lo portava da casa rischiava di vederselo soffiare già alla prima ora. All’uscita se c’era qualche lira in tasca ci si fiondava a mangiare gelati (il primo a fare gelati anche d’inverno fu Sottozero) e pesche e viennesi. Oppure si passava dal chiosco del poeta Balia a comprare fumetti di seconda mano, Supereroi, Tex, Linus, Oltretomba, Jacula, Messalina, Sturmtruppen.
Certe volte per tornare a casa si impiegava un’ora. Lenti lenti, sul corso, ceddiando paro-paro, facendo i deficienti per richiamare l’attenzione delle femminucce che, per noi, erano tutte dee, pure se avevano i peli sulle braccia, il naso di pipa e le sopracciglia di Polifemo. Oggi sono tutti i belli, i giovani, ma volete mettere le personalità dell’epoca? Non c’è paragone.
Tutti gli studenti avevano in tasca un gettone telefonico, il cellulare dell’epoca.
Il massimo della sessualità era guardare film con la Fenech e Gloria Guida. Le ragazze, tranne le più audaci, ti costringevano a mesi di corteggiamento per un bacio veloce e un abbraccio fugace, quanto bastava per mandarti in orbita (poi a casa completavi l’opera, ehm, in solitudine) con il rischio tremendo (erano mazzate allora) di un genitore in agguato.
Quando pioveva (ma doveva piovere forte) i Bus erano pieni come quello di Fantozzi. I “contatti” audaci che avvenivano bastavano a soddisfare una settimana di sogni erotici. Tutti aspettavano impazienti le frenate brusche e le curve strette. Sul bus si scherzava, si rideva, si cantava. Ogni tanto si faceva amorevolmente a pugni.
A volte salivano i controllori ed era uno sberleffo continuo; il rapporto con l’autorità di quella generazione era parecchio diverso dall’attuale: esisteva un costante moto di ribellione verso le stupidaggini delle società organizzate, si era impregnati di politica anche senza volerlo, di beata voglia di cambiare il mondo, di battersi contro le ingiustizie.
A scuola avvenivano fatti oggi impossibili: quando rapirono Aldo Moro al Liceo Vinci ci fu un’assemblea spontanea organizzata dai più adulti nel cortile; assemblea che il preside (un galantuomo, già sindaco della città, il rigorosissimo Barone Adesi) tentò di sciogliere e si prese un centinaio di pernacchie quando minacciò di espellere gli studenti “da tutte le scuole del Regno”.
Nei primi anni ’80 la serietà degli scioperi studenteschi si trasformò in farsa, e gli scioperi si proclamavano quindici minuti prima dell’inizio delle lezioni per cause davvero umoristiche. Proclamammo uno sciopero quando l’Italia perse con la Danimarca nelle qualificazioni ai mondiali 82. Contro Bearzot e i vecchiacci al potere.
Nel 1983 alcuni malandrini chiusero i cancelli del Vinci con le catene dei motorini e dovettero intervenire i pompieri: il nuovo preside Crea sporse una denuncia contro ignoti e qualche giorno dopo apparvero dei ciclostili con un pezzo fiammeggiante intitolato “Dio Crea e Crea distrugge”.
Se però un professore convocava i genitori c’era poco da scherzare. I nostri erano genitori per i quali i professori avevano sempre ragione, anche quando avevano torto. Era la fine del mondo. Le tappine volanti sibilavano per casa, cucchiai di legno, chiavi sequestrate, telefono chiuso col lucchetto, stereo sigillato. Ma serviva a poco.
Il concetto di libertà era straordinariamente presente. Al vicepreside che ti intimava di star zitto, si rispondeva di non essere in caserma; alla prof reazionaria si faceva passare la voglia di venire in classe.
In compenso l’attrazione per il sapere – puro, non finalizzato a nulla meno che mai al lavoro, era presente in dosi massicce. Quando un docente riusciva a catturare l’attenzione dei ragazzi e la trasformava in passione, aveva soddisfazioni enormi. Quasi 40 anni dopo io continuo a scrivere temi come questo grazie alla mia docente d’Italiano (prof Vanna Placido) che stimolò la mia creatività, mi diede fiducia, e cercò di condurmi verso il ragionamento autonomo.
Nel dicembre del 1982 gli studenti del Vinci occuparono Palazzo San Giorgio. Si gelava e i riscaldamenti non funzionavano. Spontaneamente, compagni e camerati uniti nella lotta al gelo (e all’incuria) scesero sul corso, si fermarono davanti al comune e poi, come una valanga, entrarono dentro. Tutti. La settimana dopo i riscaldamenti vennero riattivati. Senza che babbi e mamme si mettessero in mezzo. Non c’era bisogno della protezione dei genitori: non la volevamo. Se un genitore ti avesse accompagnato a scuola, saresti stato un bamboccio. Se le buscavi e lo dicevi a casa eri un mega-bamboccio. “Se le prendi a casa prendi il resto”, si usava dire.
Che poi i bulli c’erano anche allora. Ed è significativo, ma triste, vedere anche come siano andati a finire in questa terra violenta e sanguigna: chi sparato, chi in galera, chi tossicodipendente. La storia fa il suo corso, prescindendo dagli osservatori e dai rimedi presi.
Giustamente oggi i nostri ragazzi vivono più comodamente di quanto vivevamo noi. Hanno mille privilegi dei quali non si rendono conto. Però, maledizione, gli manca l’ingrediente principale che a noi oggi consente di ripensare a quei tempi ed essere felici di averli vissuti: la speranza nel futuro.
Tutta la classe dirigente che ha contribuito a levargliela, allarmi meteo o meno, un giorno sarà chiamata a rispondere di questo di fronte al tribunale della Storia. Perché puoi levare il pane, i diritti, il tempo, ma se togli la speranza trasformi l’uomo in una bestia, rabbiosa e affamata. E senza quella (per quanto, spesso, vana) puoi avere abiti firmati, cellulari e tutto il finto benessere del mondo, ma la vita non ha ragione di esistere.
Era la fiducia nel futuro il segreto della nostra beata, e felice, gioventù.