C’eravamo tanto amati: il mare a Reggio

Calamizzi tra sabbia sottile, profumi delicati, pesci, sogni e fanfaronate. Una carezza che odorava di mare e di un tramontato modo di vivere

Spiaggia Calamizzi notte

C’era questa spiaggia, Calamizzi, che aveva una sabbia sottile ed emanava un profumo delicato, denso di profondità marine e alghe dello Stretto.

Larga e comoda, proprio sotto il rione “Ferrovieri”, vi si accedeva passando da un tunnel, da tutti chiamato “Il tombino” (c’è ancora, in Via Galvani) nei cui pressi, raccontavano i vecchi, erano stati fucilati due tedeschi durante la Seconda guerra mondiale.

I bambini, terrorizzati dalla leggenda, quando passavano dentro non mollavano la presa dalle mani dei genitori, e ad ogni rumore trasalivano di paura. Ma poi, superato il buio e l’odore pungente, il sole ed il mare li accoglievano con bellezza sfolgorante.

Calamizzi era una carezza. Le famiglie a frotte si accampavano gustando l’estate ed i gelati, tutti figli di quel primo benessere economico che aveva tramutato completamente la vita degli Italiani. Il bagno a mare ne era il paradigma, così come lo era per le prime e per il tempo audaci esibizioni di corpi seminudi (le nonne si vergognavano ancora solo ad osservare un uomo in costume o una donna in bikini). L’affollamento era formato dal ceto medio-basso che si ritrovava sulla battigia a chiacchierare, mentre i ragazzi giocavano a tamburello, a palla o facevano pesca subacquea con arco e frecce ricavati dai ferri di un ombrello.

La spiaggia era grande; poco discosto c’era un lido con le baracchette azzurre e una rivendita di bibite, mentre proseguendo dalla parte opposta si giungeva alla radura con le barche di legno dai colori variopinti con nomi da donna, le bicocche dei pescatori e l’intramontabile spaccio-casino della Zia Mela che profumava di parmigiana e melanzane arrosto.

Il mare dello Stretto era sempre pulito, il vento e le correnti avevano cadenze quasi regolari, l’allegria regnava sovrana e il senso di appartenenza era un paradigma non definito ma costante e forte. Lo Stretto, ieri come oggi, a volte offriva paesaggi d’incantevole bellezza.

D’inverno il luogo era solo per i pescatori: anziani e coloriti come attori di cinema, i volti rugosi che sembravano di legno, i sorrisi abbozzati e l’aria esperta di chi conosce il mare. “Con il mare non c’è taverna”, ripetevano spesso.

Il nonno passava ore a lucidare, ripulire, verniciare la barca. Poi con le prime mattinate di primavera ci si metteva in mare, con un giovane forzuto a tenere i remi, io seduto a prua a fare sogni, e lui con una lenza in mano che comandava le vogate. I pesci abbondavano, sempre. Lo Stretto era fonte inesauribile. Ogni tanto nelle piccole reti o nelle nasse restava intrappolata qualche grossa aragosta. Per l’esca si provvedeva in tempo reale: una pala e scavare sott’acqua a un metro e mezzo di profondità, e nella terra portata all’asciutto si trovavano i piccoli vermi rossi che oggi vendono a venti euro a confezione (Mascone napoletano, lo chiamano).

Bastavano un paio d’ore nello Stretto, e la cena era fatta. Spesso (d’estate) si arrostiva direttamente in spiaggia. Scazzupoli (pagelli), triglie, pettine (sogliole), caiole (mormore) surici (pesci pettina in italiano, i più saporiti), pauri e tante altre squisitezze. I vecchi li pulivano con colpi decisi dei coltellini che avevano sempre dietro e in un batter d’occhio preparavano lo squisito salmoriglio con olio, limone, sale e prezzemolo, che si portavano dietro. All’imbrunire si accendeva a luce fioca una lampara, alimentata con la bombola del gas, e si restava a discutere fino a notte, i bambini in silenzio ad ascoltare le storie a volte gargantuesche dei pescatori, mentre qualcuno affettava un limone e ne faceva passare le fettine spalmate di sale.

C’era quello che aveva preso un tonno grande due volte la barca e che l’aveva tirato quasi fino allo Stromboli. L’altro che, in una giornata di bonaccia e senza pesci, mentre preparava l’insalata di pomodori era stato sorpreso dall’improvvisa emersione di un pescespada, e non ritrovandosi altro per le mani l’aveva fiocinato con la forchetta. C’era chi aveva sentito il rintocco della campana di una chiesetta sprofondata in mare secoli prima (storico lo sprofondamento, il rintocco della campana era forse dovuto al litro di rosso!), chi si era visto sfiorare da un sommergibile, chi da una balena. C’erano risate e sfottò, il nonno al ritorno a casa spiegava di non credere alle fanfaronate, ma poi mi terrorizzava raccontandomi storie di spettri o dell’aragosta gigante che gli era comparsa sotto la barca.

Calamizzi era uno dei luoghi più belli di questa malcapitata città.

Poi cominciò il sacco.

Prima la fogna, convogliata poco sotto il Calopinace, in un luogo che presto fu ribattezzato “Il catuso”, dove i più ingordi andavano a pescare cefali enormi (al nonno facevano schifo); poi, schifezza tutta riggitana, l’appalto al cantiere di laterizi che iniziò a divorare quella sabbia sottile, fino a ridurre la spiaggia ad un ammasso di sassolini taglienti e sporchi; infine, l’abbandono, l’erosione, la sporcizia, le mignotte ed il resto.

Calamizzi è oggi lo specchio delle periferie di tutto il mondo. Scorticata, degradata, persa, forse per sempre.

Ma ciò che più manca è quel senso di fiducia e di speranza. Non c’era molto, ma il futuro era a portata di mano, ed era un futuro buono. Bastava questo a rendere tutti meno arrabbiati e meglio disposti, verso la vita e verso gli altri.

Era una carezza della sera, come dicevano quei cantanti. Una carezza che odorava di mare e colmava il cuore di gioia, per il semplice fatto di esserci, per la elementare felicità d’incontrare gli altri, e per il gusto, ormai in disuso, di amare la vita, in qualsiasi modo, e in qualsiasi condizione.

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