C’eravamo tanto amati: fantasmi a Calamizzi

A Calamizzi, paradiso dei pescatori reggini, dove un tempo approdarono estasiati i Greci, si tramandano anche storie di vecchi fantasmi, "spiriti" e "malispiriti"

Settembre 1971. Il vecchio pescatore aveva da poco messo la barca in acqua, e remando con vigore aveva raggiunto il punto dove presumeva si nascondessero i pesci che cercava, a non più di cento metri dalla riva. Le luci della Sicilia di fronte si specchiavano sul mare immobile; era una notte fresca, limpida e senza luna, la città giaceva addormentata e silenziosa, il lieve sciacquio delle onde era l’unico suono che si udiva.

Il mare dello Stretto era la sua casa. Estate o inverno non importava: soltanto quando s’imbizzarriva e diventava color del vino – così diceva Omero, ben conosciuto dal pescatore- lui ne stava lontano.

I vecchi di Reggio parlavano in dialetto, ma conoscevano Carducci, Dante e Omero; usavano canottiere di lana grezza, ma poetavano e filosofeggiavano, nelle botteghe dei barbieri come nelle sedi di partito; non andavano al ristorante e alcuni s’abbruttivano nelle putìe o nei casini, ma conoscevano il sacrificio e il lavoro duro; era un mondo diverso, e Reggio era diversa.

Pescare non aveva mai arricchito nessuno; solo da pochi anni il pesce aveva acquisito pregio, sbarcando sulla tavola dei ricchi che, da sempre, erano uomini da carne (carne da mangiare, da fottere e da comandare, un modo nostrano d’intendere la vita). Però potevi arrotondare, e se in più ti spassavi era molto meglio. Lui si spassava. E il pesce gli piaceva, soprattutto in umido. A brodetto. Cu du cocci i pastina.

La lenza, sorretta dalla mano grinzosa e vigorosa, diede uno strappo; il vecchio reagì prontamente, con tutta l’esperienza del suo mestiere, e il pesce abboccò. Un giro di lenza, poi un altro, lentamente ma senza esitare continuò a raccogliere, senza fermarsi, mantenendo sempre la tensione; quel filo sottile era il suo collegamento diretto col mare e col suo mistero.

La preda doveva essere bella grossa, e combatteva grintosa. Forse un dentice, o qualcosa di simile.

Improvvisamente, da terra, gli parve di udire un gemito: era una specie di pianto di neonato. Trasalì, e si distrasse quel tanto che bastava per fargli perdere la presa. Il pesce rinculò, si girò furiosamente, si schiodò dall’amo, fuggì; il nylon teso come corda di chitarra divenne filo sciolto e debole, mosso dall’acqua.

Il pescatore guardò serio verso la riva; pensò che qualche ragazzaccio volesse fargli uno scherzo. Ma non sarebbe riuscito a fargli paura. La guerra, gli aerei che mitragliavano, la fame: quello gli faceva paura, ma era passato. Reggio è piena di stortazzi, si disse.

Con pazienza riavvolse a bordo la lenza, la innescò, la gettò nuovamente in acqua. Controllò l’orologio, la vecchia cipolla Perseo che custodiva con cura: le tre di notte. Si accese una sigaretta, rimase in attesa; dal fondo nessun segnale.

In quel buio le stelle gli apparvero dure come pietre preziose, e indifferenti, e distanti. Era solo.

Il pianto infantile divenne improvvisamente più nitido, più forte. Un pianto cadenzato, disperato. Il vecchio fissò la costa con gli occhi come fessure; si concentrò per ascoltare meglio e distinguere la voce dell’adulto che recitava suoni da lattante, ma non udì indecisioni, né finzioni.

Ritirò nuovamente la lenza, il silenzio tornò.

Sotto quelle stelle dure, con la paura in corpo, quel vuoto assoluto di suoni sembrava immane.

Il mare sotto di lui, che gli era familiare come un parente, gli sembrò allora nero come l’inferno e minaccioso come la morte.

Percepì sgomento il peso della solitudine. Ma reagì.

A remi si accostò alla riva. Diede voce: – Chi è là? – urlò.

Niente. Silenzio pesante.

Me lo sarò sognato, pensò, ma subito, come a contraddirgli il pensiero, il pianto ricominciò.

Il coraggio è la cura della paura, meditò allora il vecchio pescatore: ma era già sommerso da suggestioni, pensieri, ricordi di storie narrate di fronte ad un fuoco, leggende.

Spinse la barca fino a terra, scese nell’acqua gelida, afferrò due grosse pietre e le scagliò contro quel verso agghiacciante.

Per un breve istante il pianto terminò, ma ricominciò immediato più disperato di prima.

Il vecchio urlò nuovamente minacce; il punto da cui proveniva il suono era immerso nell’oscurità più profonda, una montagnola di terriccio formata dalle macerie della ricostruzione post-guerra, dove sfociava la fogna e il puzzo era ammorbante, tanto da essere chiamato “Catuso”.

Il pianto si placò, e tornò quel silenzio terrorizzante. Si levò improvvisa una folata di vento gelido. In lontananza cani spaventati abbaiarono furiosamente.

Il pianto infantile ricominciò.

“Nu maluspiritu”, sospettò il vecchio. Il sudore freddo imperlò la sua fronte.

Senza più esitare si rimise in barca e se la filò; tornò a casa senza pesce e con l’umore nero come quel mare. Pensieri di spettri, d’inferni dietro l’uscio, di bimbi sofferenti erano lame conficcate nella mente.

Qualche mese dopo, nei solchi lasciati dagli autotreni, fu trovato lo scheletro minuscolo di un neonato, risalente ad almeno vent’anni prima.

Il vecchio lesse la notizia sulla Gazzetta del Sud e si accese una sigaretta, rugoso come una corteccia.

Nu spiritu, non un maluspiritu” pensò, rettificando quanto aveva sospettato.

Si formò una specie di sorriso.

“I picciriddi non ponnu essiri mali”, disse quasi sottovoce, convinto non lo udisse nessuno.

“Ninu chi fai, parri sulu ora? Rimbambisti forti. E iettala dda sigaretta, ti faci mali” gli fece eco sua moglie, che l’aveva udito eccome.

La sera dopo il vecchio tornò a Calamizzi, suo paradiso notturno, e prese un dentice di due chili.

 

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