C’eravamo tanto amati: due Reggini in guerra
La storia di Giuseppe Spagnolo e Consolato Polimeni, due reggini imbarcati sull'incrociatore Pola affondato durante la Seconda Guerra Mondiale nella battaglia di Capo Matapan nella terribile notte tra il 28 e il 29 marzo 1941
Giuseppe Spagnolo e Consolato Polimeni erano imbarcati sull’incrociatore Pola fin dall’inizio della guerra; entrambi reggini, la loro amicizia si era consolidata attraverso i pericoli passati e le imprese della nave, che aveva partecipato alle battaglie di Punta Stilo e Capo Teulada, ed era stata colpita da una bomba mentre era attraccata a Napoli. I 22 corpi straziati dei morti gli erano rimasti ben impressi in mente, ed erano decisi a salvare la pelle e riportarla intatta a Reggio.
Giuseppe Spagnolo era fuochista, lavorava giù in poppa, vicino all’inferno delle caldaie; il Polimeni invece era cannoniere, uno degli addetti ai pezzi da 203 mm. La nave, uno dei gioielli della regia marina, lunga 183 metri e larga 20, 13.000 tonnellate di stazza, era pesantemente armata: 8 cannoni da 203 mm, 16 da 100 mm, 14 mitragliatrici, 8 tubi lanciasiluri; nonostante quest’armamento sviluppava una velocità massima di 32 nodi, e aveva un’autonomia di 5200 miglia.
Quel 28 marzo 1941 l’incrociatore era in missione con il fior fiore delle navi italiane, uscite per affrontare la flotta inglese del Mediterraneo. Punta di diamante della formazione era la corazzata Vittorio Veneto, attorno alla quale navigavano 6 incrociatori pesanti, 2 leggeri e 13 cacciatorpediniere. Una forza imponente, agli ordini dell’ammiraglio Jachino, che aveva per avversario il flemmatico Cunningham, ammiraglio inglese che comandava quel giorno la portaerei Formidable, oltre a 3 corazzate, 6 incrociatori leggeri e 13 cacciatorpediniere. La battaglia si annunciava cruenta.
L’asso nella manica degli inglesi fu una ragazza di 19 anni, Mavis Lever, appassionata di enigmistica e di matematica: collaborava con la centrale operativa di Bletchley Park, dove erano decifrati i messaggi delle forze dell’asse; giorno 24 Marzo decrittò la nota 53148 del comando italiano, che riportava la rotta e le istruzioni da battaglia della marina Italiana, che per avere copertura aerea doveva superare i numerosi intralci burocratici predisposti dall’ottuso regime. Il comando di Alessandria fu prontamente informato: Cunningham, che sapeva di essere spiato dal console giapponese in Egitto, si recò a terra con le sue mazze da golf, per ritornare nascostamente a bordo e salpare col favore della notte.
La trappola per gli italiani era scattata; forti della supremazia aerea gli inglesi lanciarono i ricognitori, che avvistarono le navi italiane poco a Sud del Peloponneso, tra l’isolotto di Gaudo e Capo Matapan.
Inizialmente gli italiani si convinsero d’avere lo scontro in pugno, anche per la tattica degli inglesi che avevano mandato in avanscoperta degli incrociatori, che ripiegarono in fretta, in realtà per portare le navi italiane a portata di tiro dei terribili cannoni da 381 mm delle loro corazzate.
Poi dalla portaerei decollarono gli aerosiluranti, dei minuscoli Swordfish, biplani monoposto di grande manovrabilità. Uno di essi, guidato dall’eroico capitano Dalyell-Stead, giunse volando a pochi metri dalle onde fino a mille metri di distanza dalla Vittorio Veneto, e lanciò il suo siluro prima di cadere in mare, abbattuto dalla mitraglia; Il siluro colpì la poppa della nave, riducendone notevolmente velocità e manovrabilità; per salvare l’ammiraglia Jachino dispose la formazione intera a sua protezione, rimettendo la prua verso il porto di Taranto.
Ormai il sole stava per tramontare; l’intera flotta ripiegava ordinatamente, Peppino e Consolato sul ponte della Pola, terminato il turno di servizio, fumavano discutendo del ritorno a casa, quando all’orizzonte si profilarono le sagome degli Swordfish. Sarebbe stato l’ultimo attacco prima della notte.
Le navi si difesero furiosamente ma, proprio quando sembrava che tutti i siluri fossero andati a vuoti, una tremenda esplosione squassò la nave dei due. Un siluro aveva colpito a poppa all’altezza della caldaia n° 3, uccidendo tutti i fuochisti e i meccanici, e aveva provocato danni ingenti. La nave aveva imbarcato migliaia di tonnellate d’acqua, era immobilizzata, senza energia elettrica, trasformata in un relitto.
Per inerzia, il Pola continuò ad avanzare per qualche chilometro; il mare era liscio come l’olio, l’oscurità incombente. Lungo la rotta numerosi marinai si gettarono in acqua, e tra questi anche i due reggini, che temevano un ritorno degli aerei. Erano le sette di sera.
Dalla Vittorio Veneto l’ammiraglio ordinò agli incrociatori Zara e Fiume e a 4 cacciatorpediniere di tornare a soccorrere la nave colpita. Non avevano fatto i conti con il secondo asso nella manica degli inglesi: il radar. Le navi inglesi si disposero in attesa.
Appena gli italiani giunsero in prossimità del relitto (avvistate a occhio dall’esperto commodoro Edelsten), le corazzate Warspite, Valiant (sulla quale era imbarcato il futuro consorte della regina Elisabetta II d’Inghilterra) e Barham e tutte le altre unità inglesi, guidate da un potentissimo riflettore montato sul caccia Greyhound, aprirono il fuoco.
Il primo a saltare in aria fu Il Fiume, colpito da diverse salve di proiettili da una tonnellata. Quindi i due caccia Alfieri e Carducci. Lo Zara fu ridotto a relitto fiammeggiante, e poi si autoaffondò.
Nell’acqua gelida Peppino e Consolato seguirono le fiammate di quella terribile notte. Si tenevano per mano, trasmettendosi coraggio e voglia di vivere. Entrambi non avevano commesso l’errore di denudarsi, non si erano bagnati il capo e la schiena e galleggiavano nei loro giubbotti di salvataggio senza smettere di muoversi. Videro decine di loro compagni stroncati dall’ipotermia. Molti a nuoto cercarono di raggiungere il Pola, che era qualche chilometro di distanza, mezzo affondato e inerte.
Qualche ora dopo il cacciatorpediniere Jarvis raggiunse il relitto, prendendo prigioniero l’equipaggio e il comandante De Pisa. Un paio di lance furono calate in mare per gli altri superstiti; quindi, con un siluro affondò il Pola, che scomparve in pochi minuti.
Giuseppe (Peppino) Spagnolo e Consolato Polimeni furono tratti in salvo da una lancia quando già albeggiava: avevano resistito per dieci ore, ed erano circondati da decine di cadaveri tenuti a galla dai giubbotti.
Per loro la guerra finì, e iniziarono 5 anni di prigionia in India. Ma quelle terribili ore nell’acqua gelida non furono mai dimenticate.
Oggi Peppino e Consolato non ci sono più. Forse si saranno incontrati con i 2231 italiani morti quella notte, dei quali 380 marinai come loro imbarcati sul Pola.
(NB: quest’articolo è nato da un racconto originale di Giuseppe Spagnolo “Peppino”, integrato naturalmente da un mio studio sull’evento)