C’eravamo tanto amati: a Carnevale ogni scherzo vale
Dalle bombette puzzolenti al cuscinetto petomane dell'emporio di Don Pippo sino al non plus ultra degli scherzi: sfilare il cappello ai vecchietti che richiedeva furbizia e destrezza...
La mia prima maschera da Carnevale fu Zorro. Mi causò una tristezza cosmica, tranne per la spada di gomma nera e dura che però mi venne sequestrata quasi subito causa uso continuato, in quanto infilzavo tutto ciò che mi capitava davanti rischiando di cavare occhi e strappare tende e suppellettili e scassare vasi, soprammobili e bicchieri di cristallo da esposizione.
Ricordo l’odore nauseabondo del sughero bruciato col quale mi vennero disegnati i baffi da zie solerti e ridanciane, e di come poi per lavarmeli via passai una serata intera con acqua e sapone.
Quindi presi a detestare questa festa, tranne che per la Pignolata e le Chiacchiere cucinate da mia nonna che eccedeva con lo zucchero o con il miele, fin quando non ricominciai ad amarla per via degli scherzi, le bombette puzzolenti sganciate sugli autobus affollati, la polverina gratta-gratta, gli occhi a molla, le caramelle all’aglio, il cuscinetto petomane, tutti venduti all’emporio di Don Pippo accanto alle scalette del Ponte Calopinace, dove però si trovavano anche i temutissimi manganelli variopinti, gioia dei maschi litigiosi e incubo delle ragazzine.
Uno degli hobby di metà anni ’70 infatti era questa caccia alla bambina solinga, anche se alcune si difendevano eccome a colpi di cartella o di vocabolario Palazzi, però il maschietto aggressivo con l’occhio nero poi raccontava di averle buscate da uno “grande”.
Nel ’76 il mio secondo e ultimo costume da tristezza infinita: Sandokan. Quell’anno tutti volevano essere Sandokan, me compreso. La barba nera questa volta mi venne disegnata con dei colori adeguati, al posto della parrucca mi applicarono una bandana ante-litteram che sembravo Little-Steven, la camicia era a righe azzurre che di malese avevano solo il colore del mare, i pantaloni a sbuffo erano più un pigiama, e poi le scarpe da tennis a completare l’opera. La scimitarra era una cosina storta di plastica molle, che si ruppe dopo sei minuti.
Che fantasia gli abiti di allora fatti in casa!
I maschi erano cow-boy – bastava un cappello e un fazzoletto attorno al collo e il cinturone e le pistole caricate con quelle cartuccette rosse che esplodendo facevano “pim”, e poi astronauti con il casco dello zio motociclista, calciatori (e ci voleva assai, dico io), agenti segreti con le cravatte del babbo, vampiri con i dentoni finti e il mantello che era una tovaglia da tavola.
Tra le bambine furoreggiavano le principesse – un grandissimo classico – con le protagoniste che improvvisamente si calavano nel personaggio trattando il resto del mondo come un’accozzaglia di paggi e cicisbei, e poi suore a tipo sexy, marinaie, mi ricordo una formosissima Heidi, una vestita da coniglietta senza alcuna allusione a Playboy, e poi la lugubre Pierrot, che piaceva alle mamme quelle disgraziate.
I più sfigati erano i piccoli, che con gli stracci e le pezze rimaste venivano addobbati da zingari, e in effetti c’era una moltitudine di zingarelli nelle feste casalinghe dell’epoca.
Con Sandokan la mia carriera di giovane mascherato terminò, ma continuarono gli scherzi.
Ci fu il periodo della schiuma da barba, con inseguimenti e mega risse all’odore mentolato, e mi ricordo una che si era sempre vestita da principessa che quell’anno invece se ne uscì con un abito finto punk (i jeans strappati e una giacca nera e gli occhi disegnati e le spille da balia disseminate ovunque) che si era dotata di una mega-latta di schiuma alla quale aveva applicato un tubo grazie al quale spruzzava a tre-quattro metri, ridendo come una pazza.
Schiuma e manganelli, la stupidità era totale e totalizzante, ma lo scherzo più forte, quello che più mi manca, quello che distingue una società progredita da una in regressione come quella attuale, era lo scherzo del cappello.
Nella seconda traversa della via Galilei si faceva passare un filo di lenza sopra il manicotto di un lampione, lasciandone penzolare un capo con strettamente legata una molletta. L’altro capo era manovrato a distanza, in luogo occultato, da uno dei capibanda, il più grande o il più selvatico. I vecchietti dell’epoca usavano quasi tutti il cappello, di varie fogge e forme.
Ma quelli erano vecchietti che se ti acchiappavano ti facevano il culo a strisce, tumpulate, pizzicate e calci in culo gratis e vai a dirlo a to mamma chi pigghi u restu, quindi ci volevano velocità, destrezza, furbizia, per certi ci voleva proprio un piano con uno a distrarlo e l’altro zac, ad agganciare il cappello alla molletta per poi vederlo sollevarsi verso l’aere luminoso di febbraio. E le reazioni erano di varia natura, c’era chi ti inseguiva, chi saltava per prenderlo con tutti quelli dalla parte opposta della strada che facevano la ola, c’erano quelli che ridevano (e ti fregavano perché dopo due saltelli di cappello nell’aere glielo restituivi), e poi il top che erano gli ‘ncazzusi che ti ingiuriavano in tutti i modi “chiddi buttanazzi ri vostri mammi, santi cristiani chi non vi ffucaru appena nascistu”, oppure “”pezzi di merda fitusi e porcarusi” “Si vi cchiappu vi cumbinu chi non vi canusciunu” e così via.
Una volta passò uno che – lo riconobbi e mi nascosi – era un marcantonio, prozio dei miei, un macchinista in pensione di quelli delle locomotive a vapore che aveva la mano quanto una pala, alto e piazzato nonostante l’età. Il suo cappello finì nel cielo attaccato alla molletta di legno, ma lui non si fermò, indifferente proseguì verso casa spiazzando tutta la banda. E ora chi facimu?
Io mi eclissai, loro gli lasciarono il copricapo dietro l’uscio, la festa finì, ci aveva fottuto quel vecchio comunista impenitente. Qualche tempo dopo lo incontrai. Ti vitti, mi disse, ma sorridendo. Ero spacciato, pensai, ora lo dice ai miei e ti saluto libertà. Invece, si avvicinò e mi sussurrò “A carnevale ogni scherzo vale“, allungandomi cinquanta lire per le gingomme, quelle con disegnato il ponte di Brooklyn. Preciso-preciso a quello che a breve sorgerà sullo Stretto.