C'eravamo tanto amati: quando Reggio aveva i cinema - CULT and Social

C’eravamo tanto amati: quando Reggio aveva i cinema

Parte oggi "C'eravamo tanto amati" con il racconto/ricordo deI cari vecchi cinema, oggi per lo più scomparsi, che accompagnarono i sogni, gli ideali (ma anche le "maschiate") dei giovani reggini dalla metà degli anni '70 agli anni '80 inoltrati

A Reggio Calabria c’erano tanti cinema e tanti baldi giovani affamati di storie e di vita. A metà degli anni ’70 la scelta era ampia, si andava nelle pagine della cronaca cittadina del giornale locale, e si guardava la rubrichetta in fondo alla pagina “Oggi al cinema”. Si scorrevano i titoli della programmazione, si decideva e di pomeriggio ci si fiondava in una delle sale.

Il Comunale (oggi Cilea), ribattezzato Siberia perché d’inverno era un congelatore con le sedie, e si assisteva alle proiezioni protetti da sciarpa e cappello, l’Odeon, nuovissimo, con le luci che non si spegnevano di colpo ma si attenuavano, e noi tutti a dire wow che toco (toco, parola di una lingua perduta ancora usata da qualche superstite), l’Orchidea (o Supercinema) con bar attiguo dove provai la mia prima birra alla spina, il Pergola in collina per noi appiedati perenni abbastanza fuori mano, il Santa Caterina (l’Aurora) con le file strette che il mio amico panzone non ci entrava, il Dopolavoro, e i suoi film di seconda, terza e anche quarta visione (Totò, Peppino e la Malafemmina, un film del 1956 che io vidi nel 1978 in quel cinema), l’Ariston di fronte allo stadio con villetta malandata di fronte. Ancora il Margherita, con accanto una pasticceria da urlo che faceva le “pesche” più buone del mondo. E il “Moderno“, esattamente di fronte al Duomo, con le sue locandine “scollate” (e i siparietti dei suoi frequentatori che uscivano dalla sala adottando le tecniche più originali per non farsi riconoscere!).

I film erano gli influencer dell’epoca, ma nel senso stretto della parola, perché ci influenzavano veramente.

Parlo naturalmente di noi popolino scarso di soldi e di libri, che ai film impegnatissimi e propedeutici alla rivoluzione, ma pesanti come mattoni pieni, preferivamo la leggerezza dell’avventura, delle risate, dei pestaggi senza brutalità, delle storie d’amore a lieto fine (ma solo, evento rarissimo, se ci andavi con qualche ragazza. A tal proposito è necessario dire che per noi scapestrati giovani dell’epoca le donne erano creature misteriose, erano fauna protetta e guardata a vista da padri zii e fratelli maneschi e gelosi, erano esseri mitologici che di notte non esistevano, salvo qualche fortunata eccezione).

I film influenzavano. Dopo “Trinità” e “Altrimenti ci arrabbiamo” gli amici formavano coppie assortite, uno grosso e burbero l’altro smilzo e beffardo; la Dune Buggy era l’automobile amata e le musichette degli Oliver Onions una colonna sonora.

Ci fu l’epoca di Bruce Lee. Ci vuole coraggio a guardare un film di Bruce Lee. L’eroe da solo a mani nude, o al limite con lo Shao Zi, due bastoni legati con una catena, sgominava sei o settemila malvagi con salti acrobatici, colpi di karate, mosse a sorpresa ma sempre, e dico sempre, accompagnando ogni colpo con urletti – piuttosto buffi – che noi replicavamo appena fuori dal cinema, e qualche volta finiva anche a “schifìo” con pugni e “maschiate” vere.

Il mio amico Chen un giorno si costruì lo Shao Zi, segando il manico di una scopa e legando i due pezzi con una lenza. Sua mamma lo sfondò di legnate, ma per essere Bruce Lee un prezzo lo devi pagare, o no?  E quindi vai, fuori dall’Ariston, dozzine di ragazzi che giocavano urlando e menando, se ti prendevano il naso il sangue andava esibito sulle magliette, se ti sbucciavi le ginocchia (quei maledetti pantaloni corti, che ai contemporanei verrebbe l’infarto a indossarli) ci si faceva la pipì di sopra e poi una passata di terriccio che – è risaputo – aiuta a cicatrizzare.

Poi quei meravigliosi polizieschi – che a giudizio mio ma anche di un tipo che si chiama Tarantino sono davvero meravigliosi – con gli attori specializzati nel genere, come il grandissimo Mario Adorf per citarne uno, gli inseguimenti pazzeschi di automobili venerate (la Giulia, la 128 special, la 1100, l’Alfetta, lo spiderino cabrio) e poi, che emozioni indimenticabili, le prime zizze “vere” (quelle disegnate nei fumetti ormai non facevano effetto. Ai fumetti – influencer dedicherò uno scritto a parte). Gli impermeabili della mala, i completi gessati, fornivano anche un esempio di autentico stile italiano.

Il mio amico Jena Plinsky, che aveva i baffoni a tredici anni, un giorno si vestì da gangster italiano, entro in una “putia” di alimentari, batté il pugno sul banco e chiese una banana. La signora non si spaventò affatto. Erano piuttosto dure, le signore dell’epoca, e tutte dotate dell’arma letale, la tappina, che volava più veloce delle colt di Giuliano Gemma.

I western all’italiana erano così esagerati che persino i bambini capivano quanto fossero esagerati. Pistole che tiravano due o tremila colpi, gente che sparava girata di schiena e centrava la fronte dei cattivi, mitragliatrici trainate dentro bare, coltelli lanciati da centocinquanta metri che coglievano bersagli di dieci centimetri, gli indiani che parlavano tutti con i tempi coniugati all’infinito e avevano le facce degli amici cari, ma con la parrucca.

Tra i vari Sartana, Ringo, Django e compagnia, c’era solo da prendere ed emigrare nella fantastica terra del West, dove alla fine, sovente, la bella fanciulla se ne andava col cavaliere della valle solitaria.

Arrivò poi la stagione della cretinissima commedia erotica all’italiana. Non ci sono mai stati nella storia del cinema film più cretini di quelli con Banfi – che ormai è un maestro – Vitali, Montagnani e gli altri eroi; però, ed è un però sostanziale, la Fenech nella doccia era come un miracolo divino. Gloria Guida, la Rizzoli (avevamo anche l’amico battezzato così, Rizzolo, che non si perdeva un suo film) la povera Lilly Carati e tante altre aprirono le porte della cultura dell’onanismo che ormai imperversa ovunque nell’universo.

Poi arrivò Travolta, e con lui le discoteche.

Subito dopo il film, alcuni spiritosoni ballarono in bilico sui parapetti del ponte Calopinace, convinti si trattasse del ponte di Brooklyn, e tanti (tantissimi) indossarono quei vestiti candidi da ballerini dello studio 54.

A seguire la saga di Star Wars e di Star Trek (nacquero i nerds) e infine, con i primi ’80, quel capolavoro di polpettonaggine adolescenziale che era “Il tempo delle Mele”. Odiato e amato, si ballava comunque forte il brano Reality mentre ovunque, per strada, ormai non era più tempo delle mele, ma cominciava il tempo delle pere, e se non sapete cosa significa andatevelo a cercare, che a me fa schifo anche solo scriverne, per quanti di quei bellissimi giovani ho visto crepare nel tempo.

Il cinema, quel meraviglioso spasso che dona ali alla fantasia, che è inversamente proporzionale alla quantità di sollazzi. Meno ce ne sono, più diventa forte; è così.

Alla prossima, tochissimo ‘sto pezzo, vero?